Un'immagine del derby di Bologna del 28 marzo 2021 Foto LaPresse  

il foglio sportivo

Il derby tra Virtus e Fortitudo in una Bologna dove non esistono i cugini

Roberto Gotta

Partita numero 111 tra le due anime del basket bolognese. La città si spacca "per andare a paniere"

Famiglie divise, uffici e scuole spaccate, sfottò e battutine del giorno dopo. È il derby. Quale? Tutti, di fatto, anche se ogni coppia di tifoserie di qualsiasi sport, da Liverpool a Buenos Aires, da Roma ad Amburgo, ritiene che la propria stracittadina sia diversa, più intensamente emotiva, più verace.

Succede anche a Bologna, la Bologna del basket che domenica torna ad assistere – con capienza ridotta a causa della pandemia – al derby, il numero 111 tra Virtus e Fortitudo, bilancio 63-47 dal 15 dicembre 1966, giorno della prima sfida. Ma se tutti i derby sono uguali, cosa può soddisfare il desiderio ardente dei cestofili bolognesi di sentirsi unici, di sentirsi dire che nessuno è come loro?

Una risposta interessante viene da Enrico Schiavina, giornalista di grande esperienza e valore, biografo della stracittadina con il suo ‘Cugini mai’ che già nel titolo rifiuta la retorica: “Nel derby di Bologna non c’è suddivisione territoriale, Virtus e Fortitudo sono mischiate in città e dintorni a macchia di leopardo. Nel basket, ad Atene, Salonicco, Istanbul, Mosca, le squadre invece rappresentano quartieri”. È vero, anche se una mappatura della Bologna metropolitana potrebbe svelare zone più bianconere e altre più biancoblù, con intensità variabile nel tempo: è innegabile che la crescita della Fortitudo nella seconda parte degli anni Novanta le abbia portato nuovi tifosi, non solo quelli che – si diceva – per tutti gli anni Settanta e Ottanta non avevano comunque avuto possibilità di vedere altro basket, in un ‘Palazzo’ (Paladozza è denominazione successiva, da fedeli al sistema) bianconero quasi inaccessibile, tempi in cui capitava che un dirigente d’azienda, trasferitosi in America per lavoro, cedesse gratuitamente la propria tessera a un amico pur di non uscire dalla lista degli abbonati col rischio di non rientrarci più. Sono però cadute da tempo, anche se tuttora utilizzate in malafede, le differenze di censo, che un tempo volevano segnare i virtussini benestanti e vicini alla nomenklatura (rossa) locale dai fortitudini, però pure loro proletari ma anche cattolici, considerando le origini del club: negli anni delle 10 finali di campionato giocate in 11 anni, otto perse e un paio vinte (2000, 2005), due scudetti contro 16, il fatturato complessivo del parterre della Fortitudo non pareva inferiore a quello dei cuginimai, e per quasi un decennio si verificò un curioso e spiazzante incrocio, quello di un proprietario bianconero, Alfredo Cazzola, imprenditore venuto su con le proprie forze, senza privilegi e dunque fortitudino nell’immaginario collettivo, e quello di un capo biancoblu, Giorgio Seragnoli, esponente di una famiglia potente e affermata che lo stesso stereotipo avrebbe etichettato come virtussina. Sanguigni entrambi, protagonisti di un periodo nel quale V ed F si incontrarono addirittura in una semifinale di Eurolega (2001), con la Virtus a sollevare poi il trofeo, e nell’indimenticabile 1997-98 giocarono, tra Europa e campionato, 10 turbolente volte, con sei vittorie bianconere compresa quella in gara-7 della finale, passata alla storia (anche) per il cosiddetto canestro da quattro punti, ovvero la tripla più tiro libero di Sasha Danilovic, pareggio divenuto trionfo nel tempo supplementare.

Un’atmosfera, di base, che ogni appassionato di sport, non solo di basket, dovrebbe vivere una volta nella vita, ma che col passare del tempo ha perso molta della bonomia attribuita – o autoattribuita – ai bolognesi, mito che del resto cade appena si abbia l’ardire di dissentire rispetto al credo politico maggioritario in città.

Proprio per la crescente acredine alcuni anni fa Ettore Messina, coach bianconero dal 1989 al 1993 e dal 1997 al 2002, dichiarò di non avere sentito la mancanza del derby nel lungo periodo, 2009-2017, in cui non se ne giocò neanche uno, con la Fortitudo retrocessa nelle leghe minori. È uno dei volti della cosiddetta Basket City, un errore onomastico che curiosamente diventa quasi corretto: se è vero che un americano non capirebbe mai che ‘basket’ è lo sport che in realtà chiama ‘basketball’, è anche vero che a Bologna ‘fare canestro’ si dice ‘fare paniere’ e dunque, gira e rigira, va bene anche così.

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