Foto tratta dal profilo Facebook del Team Qhubeka Assos 

Libera bici in libero Fabio. L'addio di Aru al ciclismo

Giovanni Battistuzzi

Al termine della Vuelta 2021 il corridore sardo si ritirerà dalle competizioni. Ancora una corsa a tappe, quella che aveva vinto nel 2015. Altre tre settimane di arrivi e ripartenze. Poi la bicicletta sarà soltanto passione

Altre tre settimane. Altri ventun giorni a pedalare alla ricerca di un successo o quantomeno di un piazzamento. Poi nulla sarà più come è stato negli ultimi dieci anni, o quindici a considerarli tutti quelli passati in sella con un numero attaccato alla maglietta. A Santiago di Compostela, approdo finale della Vuelta a España 2021, Fabio Aru dirà addio al ciclismo. Non alla bicicletta. Quella continuerà a essere parte integrante della sua vita, più leggera, più libera di come è stata in questi anni. Più semplice. Un ritorno all'antico, a quando questa era solo una passione, un sogno che portava con sé un'ambizione futura.

“Oggi nonostante sia qui a comunicarvi questa scelta importante della mia vita posso gridare a gran voce che amo il ciclismo, amo ancor di più andare in bici, amo allenarmi e non ho nessuna intenzione di lasciarla in garage”, ha scritto sul suo profilo Instagram il corridore sardo. Accanto una foto d'antan. Lui da ragazzino su di una mountain bike su di un sentiero stretto, arbusti attorno.

Si era ristretta la strada di Fabio Aru. Attorcigliata attorno a chissà quale pensiero, appesantita da problemi fisici e da una serenità che scappava e non riusciva a riprendere, nemmeno fosse Eddy Merckx. Nella rincorsa ai risultati il corridore sembrava aver smarrito la gioia del pedalare, tra ritiri, passi a vuoto, rinunce preventive, come quella all'ultimo Tour de France. Sembrava schiacciato da un vorrei ma non posso che si era ingigantito sino a diventare grande come le montagne sulle quali ci sono stati anni nei quali sembrava volasse. Un moto ascensionale che pareva irresistibile prima di interrompersi sul più bello, con la maglia gialla addosso.

Il volto di Fabio Aru si era intristito sempre più in questi anni, era diventato una maschera di rassegnazione e insoddisfazione. Quella maschera era sparita quasi per magia la scorsa settimana durante la Vuelta Burgos. Erano ritornate le linguacce, le smorfie di fatica. E i sorrisi, gli stessi che s'erano riaffacciati in inverno sugli sterrati del ciclocross, ma più convinti, più consapevoli. Chissà se aveva già deciso di dire addio al ciclismo. Chissà se abbandonando il peso dei traguardi futuri si era liberato lui stesso di tutto quello che lo appesantiva. Se il pensare alla bicicletta e solo alla bicicletta non l'avesse reso leggero di una responsabilità che gli si era piantata tra l'aorta e l'intenzione.

Non sempre è facile trasformare la propria passione nel proprio lavoro. A volte è il paradiso della meraviglia. A volte può trasformarsi in un laccio che ti si stringe al collo e lascia giusto lo spazio per continuare a respirare il minimo che serve per continuare a stare al mondo. Ritrovarsi a fare ciò che si sognava da ragazzino a volte può amplificare le nostre sensazioni a tal punto da trasfigurarle. Soprattutto quando le cose non vanno come dovevano andare.

Fabio Aru si godrà quello che resta della sua carriera ciclistica. Ancora una corsa a tappe, l'ultima, quella che ha già vinto nel 2015. Poi la bicicletta tornerà a essere solo passione, non più lavoro. Le sue priorità sono cambiate. Può capitare, soprattutto a trentun anni. Soprattutto vedendo i ragazzotti di oggi, quelli che si sono affacciati al ciclismo professionista da poco e che portano su strada una verve, una voglia totale di competizione che da decenni non si era vista così intensa e totalizzante.

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