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Il Foglio sportivo

Spiegare flop ed exploit inaspettati a Tokyo 2020

Giuseppe Pastore

Più che il corpo poté la mente. Perché restare attaccati alla realtà serve

Nella scala dei valori e dei requisiti richiesti a un atleta per primeggiare nel contesto sportivo più elevato del pianeta, i Giochi di Tokyo 2020-2021 hanno definitivamente sancito il sorpasso della mente sul corpo. Lo urlano le imprese sovrumane di Gianmarco Tamberi e Vanessa Ferrari, approdati a risultati giganteschi dopo due infortuni tremendi grazie a un’autostima incrollabile e un folle ottimismo che nemmeno Fitzcarraldo, il protagonista del film di Herzog che trasportò una nave oltre una montagna. Lo dichiara Marcell Jacobs, quando in cima ai ringraziamenti dopo il 9”80 mette la mental coach Nicoletta Romanazzi. Lo suggerisce Massimo Stano quando giura che ha iniziato a progettare l’oro nella marcia ripetendosi in continuazione di essere il più forte del mondo (“a volte il cervello va ingannato così”), o Gregorio Paltrinieri – il miglior azzurro dell’Olimpiade al di fuori del comune di Desenzano sul Garda – che a caldo, dopo le due medaglie negli 800 e nella 10 km, snocciola frasi sul “cuore” e sulla “cattiveria” che suonerebbero insulse e cantilenanti se non uscissero dalla bocca di uno degli atleti più brillanti d’Italia, sopravvissuto a Tokyo all’agguato sportivamente mortale della mononucleosi. Lo confermano, al contrario, i tilt nervosi di giganti dello sport come Novak Djokovic e ovviamente Simone Biles, o più modestamente le facce spente degli azzurri del volley e i sorrisi stiracchiati e innaturali delle azzurre, in cerca di serenità forzata e disturbante come un primo piano di David Lynch, comunque lontani mille miglia dalla fortificante trance agonistica di serbi e argentini. 

Anche chi ha vinto una medaglia, come l’ottimo Federico Burdisso, primo italiano a salire su un podio olimpico nuotando a delfino, ha lasciato intendere che “io questa gara non volevo neanche farla”, pensiero espresso anche da altri colleghi di ogni disciplina, presi alla gola dalla tensione, dall’ansia, dal pensiero di aver trascorso quattro-anni-anzi-cinque a contare i giorni per poi desiderare, una volta a Tokyo, di voler fuggire il più lontano possibile. È probabile che c’entri il silenzio pneumatico dei palazzetti e della città intera, l’umidità dell’aria e l’ancor più soffocante burocrazia del Villaggio Olimpico, l’impossibilità di un’evasione dai propri pensieri, oppure il cervello ormai ridotto a pentola a pressione da diciotto mesi devastanti di fili spezzati e poi riannodati, preparazioni interrotte e poi riprese, un bungee-jumping emotivo che ha presentato il conto in quella che doveva essere una festa – e del resto quanti di noi, da bambini, venivamo travolti dall’angoscia all’approssimarsi del nostro compleanno?

In uno sport sempre più globale in cui, al netto dello sporting divide che separa il Nord e il Sud del mondo, ormai le nozioni di preparazione fisica, tecnica e tattica sono merce piuttosto condivisa, la mente rimane il grande mistero. I labirinti del pensiero s’intersecano poi con i benedetti e maledetti social. Un esempio per fissare su carta il tempo che passa: Klaus Dibiasi, uno dei massimi atleti italiani di ogni tempo, sostiene che la tensione olimpica è andata sempre aumentandogli, “non l’ho avvertita a 17 anni a Tokyo 1964 , l’ho provata a Città del Messico 1968, l’ho sentita viva e presente a Monaco 1972, fino allo spasimo di Montréal 1976”. Cosa spinge dunque la sedicenne Benedetta Pilato, uscita di scena dalla sua prima Olimpiade in men che non si dica per una squalifica nella batteria dei 100 rana, a dedicare un pensiero su Instagram “a chi aspettava da tanto un mio momento buio”? Perché un’adolescente di straordinario successo sportivo si preoccupa così tanto di chi le vuole male? Esiste un modo per quantificare in decimi di secondo e centimetri persi tutte le energie negative buttate a litigare su uno smartphone con degli sconosciuti o semplicemente ad avvelenarsi il sonno e la vigilia di una gara? Se legioni di atleti si stanno esercitando a scaricare la tensione nell’imminenza dell’appuntamento aspettato per quattro anni, com’è possibile che ce ne siano tanti altri che compiono il percorso inverso, dagli schermitori avvitati nel solito tunnel di polemiche e lunghi coltelli alla povera Margherita Panziera, campionessa europea e secondo tempo mondiale nel 200 dorso, incappata in una mortificante serie di contro-prestazioni di natura esclusivamente cerebrale? È un mistero anche questo ed è forse il più grande mistero che resiste nei Giochi Olimpici: una manifestazione sportiva diversa da tutte le altre, che si colloca lontanissima da questa palude di cinismo in cui navighiamo senza posa da tempo immemore e che obbliga i suoi atleti – non vorremmo dire “eroi” – a fare i conti con le emozioni più profonde e violente, senza filtri e dighe che tengano. Da lì le lacrime, gli sforzi sovrumani, i crolli nervosi, gli exploit strappacuore alla Tamberi. Evviva, ci viene da dire: nell’era più virtuale della storia dell’umanità, vince le Olimpiadi chi riesce a rimanere più attaccato possibile alla realtà.

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