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Tour de France. Pogacar nel luogo che non esiste

Giovanni Battistuzzi

Lo sloveno vince la seconda tappa di fila al Tour. Questa volta a Luz Ardiden, un nulla sciistico, una strada chiusa dove tutto finisce, pure la fede. Quella di Carapaz e Vingegaard, quella sancta Xaexhedia, una santa di cui nessuno sa la storia

Luz Ardiden sino al 1975 non esisteva. E neppure adesso non è che esista molto. Due impianti di risalita, un ristorante, un paio di alberghetti. È una strada chiusa dove tutto finisce, pure la fede.

Lì dove sorge ora la funivia c’era un piccolo capitello votivo dedicato a una santa che non esiste, almeno per la Chiesa: sancta Xaexhedia. Chi fosse, cosa avesse fatto e perché le eressero un capitello votivo nessuno forse l’ha mai saputo, ma qualcuno la venerava. Mica si deve aver fede solo nei santi più famosi, a volte ci si può affidare a qualche santa di cui non si sa niente e che secondo il Vaticano nemmeno esiste.

La resistenza a tutto di sancta Xaexhedia è terminata quarantasei anni fa, quella di Richard Carapaz e Jonas Vingegaard oggi. E nello stesso luogo a 1.720 metri sul livello del mare. Tutti e tre spazzati via da qualcosa di inesorabile. Il progresso e Tadej Pogačar, che almeno ciclisticamente parlando, sono concetti sovrapponibili.

L’ecuadoriano e il danese avevano studiato piani e contropiani, si erano industriati per farsi venire in mente idee, caricati di buona volontà pur di trovare il modo di tenersi lo sloveno alle spalle. Erano o non erano i Pirenei l’ultima loro speranza? Qualcosa hanno provato a fare verso Andorra domenica, qualcosa hanno provato a mettere sull’asfalto verso il Col du Portet ieri. Giochi di squadra, buone tirate gregarie per vedere di mettere in difficoltà gli altri, assicurarsi intanto il podio e poi incrociare le dita. Il colpo a effetto, quello che poteva ribaltare il Tour de France non è stato azzardato. Si poteva provare il colpo gobbo sul Tourmalet, azzardare in discesa. Sarebbe servito? Il coraggio non c’entra, la paura nemmeno. C’entra la consapevolezza. Quella che entrambi avevano maturato strada facendo: Tadej Pogačar avrebbe risposto e poi attaccato.

Il corridore che aveva azzannato il Tour de France nella prima cronometro, che l’aveva sbranato poi verso Le Grand-Bornand e digerito verso Tignes, ora era diventato più abordabile. Non salutava tutti come fosse la cosa più semplice al mondo. Quando attaccava non si trasformava in vento. Però non lo si riusciva a staccare. Si può mica sperare in una crisi altrui quando il concetto di crisi è qualcosa sembra non conoscere la maglia gialla.

Potevano nemmeno affidarsi a sancta Xaexhedia Carapaz e Vingegaard. Non sarebbe servito. Sancta Xaexhedia era raffigurata con una tunica gialla e forse non se la sarebbe sentita di intervenire. Intervengono mai i santi sulle cosucce sportive, soprattutto quando si dovrebbe penalizzare il più forte.

Perché Tadej Pogačar ha dimostrato di essere ancora una volta il più in palla. Ha vinto ancora e ancora in maglia gialla. Ha conquistato anche l’ultima cosa che meritava di conquistare ma non era ancora sua: la maglia a pois, quella del miglior scalatore. Fosse assegnata per acclamazione non ci sarebbe stata lotta, ma è assegnata coi punti e di lotta ce n’è stata, ma anche questa vana.

Tadej Pogačar è di una nuova epoca, ha preso tutto quello che doveva prendere e ha fatto bene. Chi è nettamente più forte degli altri e sembra non avere punti deboli non ha bisogno di alleati, ha bisogno di un clima di terrore, di incutere timore e reverenza ciclistica. Solo così si consolida il potere. E si aprono gli spazi per la rivolta. Basta aspettarla. Prima o poi arriverà.

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