A.S.O./Charly Lopez

Il Tour de France e l'epoca nuova del ciclismo

Giovanni Battistuzzi

Non per rabbia ma per amore. La Grande Boucle di Tadej Pogacar, Wout van Aert, Mathieu van der Poel e Jonas Vingegaard, aspettando Tom Pidcock e compagnia, non tutto può essere spiegato con la multidisciplinarietà

Era il settembre del 1993 quando le radio iniziarono a trasmettere la canzone di Francesco De Gregori Il bandito e il campione, brano incentrato sulla storia di Costante Girardengo e Sante Pollastri. “C’è una cosa che mi ha colpito di questa canzone. Sta in una frase: quando si correva per rabbia o per amore. Era davvero così. Manca la fame, ma tutti correvamo per fame”, disse Antonio Negrini a Rino Negri. Negrini con Girardengo corse per quattro anni, maglia Maino. “Allora per noi la bicicletta era tutto. Pedalare voleva sì dire allontanarsi dalle difficoltà della vita, ma anche era l’unica cosa che volevamo. C’era un profondo amore per la bici, non era solo sport. Le bici giravano per le città, era una presenza fissa. Qualcuno, io tra questi, riuscì a trasformare in professione la passione che ci faceva battere il cuore”.

Il Tour de France  2021 che si sta correndo in Francia (terminerà domenica 18 luglio) è in parte una continuazione di questa storia.
Qualcosa di nuovo che però parte dagli stessi presupposti, fame esclusa. Perché quanto sta accadendo nel ciclismo in questi ultimi anni non è solo un ricambio generazionale. L’avvento di un manipolo di giovanotti molto forti è qualcosa che ciclicamente accade. E non può essere spiegata neppure con il facile riferimento alla scelta di molti dei nuovi protagonisti di dedicarsi a più discipline: Wout van Aert e Mathieu van der Poel vengono dal ciclocross e al ciclocross non hanno intenzione di rinunciare, Tom Pidcock non smette di correre anche in mountain bike (specialità nella quale correrà van der Poel alle Olimpiadi e dalla quale viene Egan Bernal), Geraint Thomas viene dalla pista così come buona parte dei corridori inglesi. Remco Evenepoel e Tadej Pogacar, il corridore che ha vinto lo scorso Tour  e che ha dominato le prime due settimane di questa edizione, invece sono cresciuti su di una bicicletta da corsa.

Quello a cui siamo assistendo è più dell’avvento di una nuova generazione, è un cambio epocale legato a una mutazione del contesto, quello del ritorno sulle nostre strade delle biciclette, non più mezzo di movimento d’antan e d’elezione per qualche fissato, ma presenza comune e costante nelle città. Un ritorno alla passione primigenia, quella del pedalare per pedalare. Un amore trasmesso per prossimità. A gennaio Sasa Sviben, primo campione nazionale sloveno (1997), intervistato dal Delo, il principale quotidiano nazionale, disse che l’esplosione di Pogacar e Roglic non dovrebbe sorprendere nessuno. “Talenti così ne nascono pochi, ma sono frutto di una trasformazione del paese. Sono riusciti a salire su di una bici perché hanno avuto la possibilità di innamorarsi di questo mezzo. Più biciclette ci sono in giro, più le strade sono sicure, più la gente si appassionerà”. Alcuni dei giovani protagonisti della Grande Boucle di quest’anno hanno espresso lo stesso punto di vista. Van der Poel, Vingegaard, van Aert hanno detto di aver iniziato perché non potevano fare a meno, perché la bici era lì e gli amici ci andavano. Van der Poel anche per storia familiare: il padre era un professionista, il nonno Raymond Poulidor. E hanno continuato così, con la stessa passione di allora, con quell’amore totale per la bicicletta che li porta a correre sempre, ovunque, a superare qualsiasi barriera. Wout van Aert l’ha fatta semplice. “Pedalare è semplice, stai in equilibrio muovendo i pedali, va così ovunque: che sia collina, piano o montagna”. L’universalismo del gesto lui l’ha sublimato unendo le vittorie in volata a quella nella tappa del Mont Ventoux. Servono gambe, certo, ma è l’amore per la bici che permette di affinarle. La bici è tornata per loro quel “tutto” di Negrini.
 

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