Il richiamo del Ventoux. Al Tour de France vince van Aert

Giovanni Battistuzzi

La scalata del belga alla cima del monte calvo è un ritorno al passato e insieme un ritorno al futuro, la sublimazione del ciclista capace di ogni cosa

Il Mont Ventoux è luogo di grandi resistenze. Alla natura, che si manifesta in venti capaci di piegare qualsiasi cosa e impone temperature estreme sia sopra che sotto lo zero. Alla scienza, che ha impiegato oltre un secolo a giustificare l’esistenza in Provenza di alcune specie animali e vegetali (il pino d’Aleppo su tutti) che lì non si dovrebbero trovare. Alla fatica. Scoperta recente questa, che ha festeggiato appena i settant’anni. Il Tour de France ci passò per la prima volta nel 1951. Fu Lucien Lazaridès il primo a raggiungere la cima, il primo a discendere da esso, non il primo a raggiungere Avignone, sede d’arrivo di quella tappa. A vincere fu Louison Bobet. E fu proprio Bobet a riassumere prima e meglio di altri cos’è il Ventoux per il ciclismo, “non soltanto una salita per scalatori, ma una salita per duri a morire”. Avesse registrato il marchio si sarebbe arricchito parecchio con la saga Die Hard.

Non è cambiato da allora il Ventoux, le salite non mutano, restano uguali a loro stesse. E in fondo neppure i corridori. Certo si evolvono, appaiono e scompaiono, modificano le loro peculiarità, ma non cambiano.

La scalata di Wout van Aert alla cima del monte calvo è un ritorno al passato e insieme un ritorno al futuro. L’evoluzione della bellezza dell’ascesa, quella composta e sulla sella, che si contrappone da sempre a quella danzante e sui pedali. Note diverse, opposte, di un’unica canzone, un duetto che rappresenta l’unione del meglio che questo sport ha da offrire.

Aveva ragione Bobet. Il Ventoux è una salita per duri a morire, anche decenni dopo essersi trasformata in sepolcro di uno degli avanguardisti del ciclismo britannico, Tom Simpson. Era forte l’inglese, un corridore magnifico capace di unire il gran pedalare nelle classiche e nei grandi giri, sugli strappi, sulle montagne e nelle pianure. In Provenza trovò la morte per un miscuglio infame di fatica, caldo e anfetamine. Il ciclismo era anche questo, non ci si può fare nulla, prendere o lasciare.

Wout van Aert ha preso. La passione è una brutta bestia, impone di fregarsi di qualsiasi cosa. Anche e soprattutto di un’enormità di accuse e sospetti e infamità a cui il Wout bimbo e ragazzo si è trovato ad affrontare guardando il ciclismo. La bici ha vinto. Per fortuna. Non è diversa dal Ventoux: dura a morire.

A.S.O./Pauline Ballet 

Wout van Aert è l’ultima evoluzione di quel particolare tipo di corridori del quale Simpson faceva parte. È la sublimazione del ciclista capace di ogni cosa. Anche di arrivare secondo in volata il giorno prima dietro a Mark Cavendish e poi di involarsi tutto solo sulle pendici di una salita unica. L’unicità è una forma d’attrazione, non c’è verso di cambiare tutto ciò. Oggi è come ci fosse stato un richiamo, una trama scritta da un grande scrittore, una somma e stupenda inevitabilità che ha cancellato passato e futuro, ha imposto un presente fatto di pedalate rotonde e solitarie, a loro modo affascinanti e desolate perché ogni soggetto protagonista, nel ciclismo, non può staccarsi del tutto dal contesto che lo circonda.

Un incedere elegante e risoluto, iniziato seguendo l’ostinata illuminazione che oggi e non un altro giorno potesse essere quello buono per centrare ciò che aveva in mente sin dall’inizio bretone della Grande Boucle: la vittoria di tappa. Van Aert si lanciato all’inseguimento della fuga che era già partita con il piglio di chi sa che ogni grande giornata va costruita dalle fondamenta. Nulla è regalato, nulla è concesso soltanto per pedigree. Il suo Ventoux se l’è creato a valle, trainando l’inseguimento di quel manipolo di corridori che l’aveva seguito. I primi avanguardisti li ha raggiunti, ha dato una mano all’incremento del loro vantaggio, ha assistito all’assottigliamento delle speranze altrui, al tentativo di evasioni. Poi ha preso in mano la situazione, ha raggiunto Kenny Elissonde prima di salutare la sua compagnia. Non ne aveva bisogno. Il Ventoux non è solo luogo di resistenze, ma anche di mistiche solitudini.

A.S.O./Pauline Ballet 

Al misticismo ha provato pure a concedersi Jonas Vingegaard. Il suo attacco a una manciata di chilometri dalla cima del monte calvo, ha sgretolato ciò che restava del gruppo dei migliori, ha fatto poi tirare per la prima volta il fiato a Tadej Pogačar. La maglia gialla ha preferito lasciare la ruota del danese, tirarsi il collo non era il caso. È corridore intelligente lo sloveno, sa leggere le dinamiche di corsa, ha la capacità di ragionare velocemente senza incappare nell’equivoco superomistico. Tre settimane di corsa sono lunghe, serve bilanciare il dispendio di energie e adattare il proprio rendimento a queste. Pogačar ha un vantaggio enorme su tutti, enorme a tal punto da poter essere gestito. L’ha fatto straordinariamente bene oggi, considerando che la lotta per il podio dista da lui oltre cinque minuti.

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