AP Photo/Alastair Grant

Interviste da stadio

Anni luce fra l'Italia e Wembley

Francesco Gottardi

Demolito, rifatto, eterno. “Per i nostri impianti sarebbe un’eresia”, parlano gli architetti dello Juventus Stadium. “Intrappolati fra burocrazia e passato: cambiamo marcia o il nostro calcio non si riprende più”

È il fascino dell’inaccessibile, nonostante quei 90mila posti a sedere. Per capire la portata della profanazione a cui sono chiamati gli Azzurri domenica, c’è forse una frase che racchiude tutta la storia: “I’ll never play at Wembley again. Unless I play at Wembley again”, disse una volta Kevin Keegan, ex attaccante e ct della nazionale inglese. Vero e attuale. Non c’è più traccia del tempio del calcio inaugurato nel 1923 da re Giorgio V. Ma ormai, varcando i cancelli dell’impianto interamente ricostruito 14 anni fa, nessuno ci fa più caso: il fascino, la fama, il brivido si perpetuano tutti. Con le parate di Gordon Banks, i Pink Floyd, il Live aid e ora la finale di Euro 2020. Un borough della Greater London sulle cartine di tutto il mondo. “Merito della mentalità british, che considera le arene come opportunità di rilancio e un volano per la crescita urbana: si pensi anche a Highbury. In Italia invece, oggi è quasi impossibile costruire un nuovo stadio. Figuriamoci rifarne uno da zero”.

 

Gau Arena conosce bene tutte le difficoltà del caso: è lo studio di architettura più in voga per le nostre infrastrutture sportive, con progetti avviati lungo tutta la penisola – da Bologna a Napoli, passando per Roma, Cagliari, Avellino. E soprattutto ha già realizzato l’esempio principe degli ultimi vent’anni: lo Juventus Stadium. “Ma anche lì ce ne sono voluti almeno otto per farcela”, racconta al Foglio Gino Zavanella, fondatore e capo del team di lavoro. “Mentre per il nuovo Dall’Ara sono già volati via in chiacchiere quattro anni: a Londra ci misero meno per demolire – sul destino delle caratteristiche Twin towers dello stadio si discusse, ma poi bastò un gentlemen agreement, ndr –, progettare e riportare in funzione un impianto storico come Wembley. Wembley dico: mica un campetto da amatori”. Very easy, in teoria. “Ho girato il mondo, lavorato all’estero e lo posso affermare: non ho mai trovato un paese esasperante come l’Italia. Anche confrontandomi con chi del settore. Soprattutto fra Stati Uniti e Canada, fanno fatica a capire questo nostro caos”. 

 

(foto EPA)

È un cocktail micidiale. “Prima di tutto il pantano amministrativo”, spiega Zavanella. “Attenzione: è l’impostazione burocratica del sistema, più dei burocrati, il grave problema. Non è possibile avere a che fare con 40 enti decisori per la realizzazione di uno stadio. Si deve trovare un modo per abbreviare le tempistiche, ben al di là dell’architettura dello sport. Che ha bisogno di ritmi compatibili con quelli del calcio: massimo due anni. Altrimenti come si fa a programmare? Mi auguro che i presidenti di tutti i club professionistici si uniscano e facciano pressione concreta sul governo”. Anche perché sul lato imprenditoriale il vento sta cambiando: “Negli ultimi anni sono emerse società lungimiranti”, interviene Riccardo Cefarelli, senior designer per Gau Arena. “C’è ancora chi si àncora troppo al risultato sportivo immediato, ma molti invece stanno capendo che l’unico modo per far crescere il brand è investire nelle infrastrutture. Queste richiamano pubblico e incassi televisivi: finora gli operatori sono poco attratti dalla Serie A proprio per la sua risposta estetica inferiore, fra impianti mezzi vuoti e obsoleti”. Un handicap pesante. “Le idee non mancano, le capacità economiche neppure. Ma spesso si infrangono in vincoli legislativi e pregiudizi culturali legati al patrimonio edilizio”.

 

Forse quest’ultimo è il punto clou. “La storia di Wembley dice che il nome va al di là dello stadio, che non è intoccabile come struttura. Le esigenze dello sport cambiano, dai numeri al modo di viverlo. E da noi questo non si riesce ad assimilare. Come se ci fosse un congelamento del ricordo”. La Grande Inter, Italia ’90: il passato che diventa limite fisico. “Anche una volta ricostruito, San Siro perderebbe mai il suo spirito? Penso pure al Franchi di Firenze, dove il presunto valore monumentale sta bloccando tutto. Se non altro le ultime norme stanno iniziando a tenerne conto: storicizzare solo alcune parti della struttura consente di apportare migliorie su altre. È importante sottolineare che non per forza uno stadio dev’essere del tutto raso al suolo per riacquisire appeal”.

 

Cucire il nuovo con il vecchio: il grande appello arriva da Bologna. “Un mix unico al mondo fra archetipi simbolici – il muro degli anni Venti, la torre di Maratona – e componenti d’avanguardia”, di nuovo Zavanella. “Siamo in fase di approvazione del progetto definitivo: con il Dall’Ara che verrà vogliamo creare un esempio di integrazione intelligente, per valorizzare un’intera area di città e inaugurare la nuova stagione dell’architettura sportiva italiana”. Cosa vuol dire stadio oggi? “Si tratta del più imponente contenitore cittadino. Ha un impatto, un costo: quindi dev’essere in grado di ricambiare con dei servizi continui per tutta la comunità. E ha bisogno di infrastrutture accessorie, per allungare l’esperienza all’interno del complesso e renderlo attivo tutta la settimana. Anche per chi non guarda le partite, anche per famiglie e bambini: in accordo con la città sociale e politica, con la sua gente. Un po’ come gli anfiteatri e gli ippodromi dell’antica Roma”. Se gli occhi d’Europa sono tutti su Wembley, lasciamo perdere l’Olimpico e consoliamoci pure col Colosseo. Dai gladiatori ai turisti: più rifunzionalizzazione di così.

 

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