Il richiamo del metallo. Mohoric vince al Tour de France

Giovanni Battistuzzi

La settima tappa della Grande Boucle 2021 è una trappola ben congegnata. Van der Poel attacca in maglia gialla, van Aert prende oltre tre minuti a Pogacar mentre Roglic si stacca. E ora?

C’è una sorta di affinità elettiva nel ciclismo che unisce i luoghi ai corridori. Non sempre si manifesta, a volte sì e le caratteristiche di un posto attraggono i giusti protagonisti. Come fosse un richiamo al quale è impossibile resistere.

Le Creusot, arrivo della settima tappa del Tour de France 2021, è da sempre cittadina metallica e meccanica, operaia e resistente, luogo di estrazione e trasformazione. Va così da sempre, da quando almeno il carbone è iniziato a essere una necessità. Prima era solo uno sparpaglio di casupole e tenute nobiliari. I nobili se ne sono andati quando è arrivata l’industria, i loro sollazzi sono spariti per sempre. Non sono tornati nemmeno con la Grande Boucle.

A Le Creusot la corsa c’era arrivato due volte: nel 1998 (il giorno prima dell’incoronazione parigina di Marco Pantani) e nel 2006, sempre a cronometro. C’è ritornata oggi al termine di 249 chilometri, tappa più lunga di questa edizione. E ha richiamato a sé un manipolo di uomini che la rappresentano a meraviglia. Corridori metallici, meccanici (nel senso di solidità), operai e resistenti. Ha chiamato a sé prima di tutto e primo fra tutti Matej Mohorič. Gli ha estratto una parte di quel talento incredibile che gli aveva permesso di vincere uno dopo l’altro (nel 2012 e nel 2013) il Mondiale prima tra gli junior, poi tra gli under 23. È riuscita a  ricomporlo, trasformandolo in vincente.

Un richiamo che è iniziato al mattino e gli ha fatto centrare la fuga giusta; che si è fatto invadente a novanta chilometri dall’arrivo, quando, assieme a Brent van Moer, ha salutato gli altri 27 compagni d’avventura; che si diventato irresistibile a una ventina di chilometri dalla cittadina quando si è sbarazzato della compagnia del belga e di Jasper Stuyven e Victor Campenaerts che li avevano raggiunti. Da lì in poi si è goduto la solitudine, l’ha salutata piangendo quando si è ritrovato a poche centinaia di metri dall’arrivo.

Poteva andare diversamente. Potevano scattare Mathieu van der Poel per una vittoria in maglia gialla, oppure Wout Van Aert per prendersi ciò che vestiva l’eterno rivale. Poteva essere il trono del ritorno alla vittoria di Philippe Gilbert, o teatro di uno scontro di velocisti da lunga gittata, Christophe Laporte o Magnus Cort Nilsen, oppure ancora ritornare luogo di caccia della nobiltà vincente, la cittadina che aveva esaltato ancora il talento di Vincenzo Nibali e Simon Yates.

Niente di tutto questo. L’osmosi operaia e resistente ha fatto in modo che non andasse diversamente. Spesso sono anche i luoghi che fanno i corridori.

E le strade le corse. E così in quel su e giù continuo che è l’Autun, s’è rimescolato pure il Tour de France, ha assunto anch’esso la forma dei luoghi che ha attraversato. Lì dove per secoli briganti, banditi e uomini di fede hanno provato a convivere, spesso contro il re e l’aristocrazia, sperimentando assurde e traballanti forme di autogoverno, la forma più spavalda d’autogoverno ciclistico, la fuga, ha provato a mettere sotto scacco il nuovo regime.

Tadej Pogačar aveva imposto mercoledì il suo volere a cronometro, aveva reso evidente il suo talento in modo talmente lampante da impressionare tutti e spaventare molti. Un giorno ad attendere la volata però è bastato a tramutare lo spavento in ardore rivoltoso, le paure in coalizione, almeno temporanea. Tutti contro uno e poi vediamo come va. Un obbiettivo solo: isolarlo e sperare che non sia lui il primo ad attaccare.

Lo sloveno è giovane, ma non ingenuo. Sa di avere tutti contro. Le regole del ciclismo le conosce e sapeva di non poter lasciare troppo spazio a ventotto corridori, che il rischio di trasformare una fuga generosa in una fuga bidone è sottilissimo. E così ha messo i gregari a lavorare, tutto il giorno. Li ha sacrificati, non c’era altro da fare. E quando il finale si è avvicinato ha preferito nascondersi nel gruppo, evitare di farsi vedere. Non è mai saggio esporsi troppo prima delle montagne, e queste arrivano domani.

Intanto ha assistito alle difficoltà di Primoz Roglic, che ha perso quasi quattro minuti. Ha visto il dissolversi di Nairo Quintana, sparito dalla generale e quindi pericoloso più che mai, perché potrebbe essere una variante pericolosa (e quindi interessantissima) per le fughe.

Ha assistito soprattutto al dilatarsi del ritardo dalla maglia gialla e da Wout van Aert, salito da quest’ultimo a 3’13”. Il belga non ha mai corso per fare classifica in un grande giro, potrebbe iniziare ora.

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