Marco Rossi, allenatore dell'Ungheria (Ansa)

Euro 2020

Il destino di Marco Rossi agli Europei

Giuseppe Pastore

Un uomo abituato a non dare nell’occhio. Allenatore italiano della vittima sacrificale del Torneo, l’Ungheria

Nelle foto di gruppo delle due Sampdoria 1993-95, a breve distanza da Roberto Mancini e da molti suoi compagni di viaggio nell’Italia di oggi da Evani a Lombardo, trovava spazio anche un trentenne precocemente stempiato, dalla presenza un po’ marginale tanto da finire nel calderone degli “altri giocatori”, non degni nemmeno della figurina Panini. E non si può certo dire che Marco Rossi – in ordine d’importanza e d’apparizione, il secondo ct italiano di Euro 2020 – abbia scelto la via dell’appariscenza: nel silenzio riservato negli anni Novanta ai calciatori che osavano abbandonare l’El Dorado italiano, fu il primo calciatore a tentare la via del Messico, al Club América allenato da Marcelo Bielsa di cui ricorda l’ufficio pieno di vhs di partite. Oggi prospera da un decennio come allenatore di grido in un calcio ungherese ormai scollegato dai fasti che furono, dei quali anche lui subiva il fascino da bambino, grazie al nonno che gli tramandava le gesta della Honved di Budapest.

 

Quarant’anni dopo Rossi l’Honved l’ha allenata davvero, ci ha vinto un campionato nel 2017 con il budget più basso del torneo, è stato nominato miglior allenatore della cosiddetta Nemzeti Bajnokság (la serie A locale) e quindi ha ricevuto l’incarico più prestigioso di tutti – qualificare e guidare la Nazionale ungherese agli Europei 2020 – nel paese più euro-scettico di tutti: i falchi del Gruppo di Visegrad, talmente poco appassionati di diritti civili che da due anni disertano l’Eurofestival ritenendolo “una flottiglia di omosessuali”. Marco Rossi non ama entrare in discorsi politici riguardo al paese che gli ha cambiato la vita e salvato la carriera, strappandolo a un futuro da commercialista dopo che era rimasto a piedi nel 2011, esonerato dalla Cavese ultima in serie C. Probabilmente sposerà la tesi cara alle alt-right di tutto il mondo, “lo straniero è benvenuto se lavora sodo e si integra nel nostro sistema”, che nel suo caso di maschio bianco non fa effettivamente una piega.
 

Poi però c’è Loic Nego, l’unico giocatore nero tra i convocati di Rossi. Nato a Parigi nel 1991, campione d’Europa under 19 nel 2010 con la Francia di Griezmann (che ritroverà da avversario il 19 giugno), oggi Nego gioca nel MOL Fehérvár, squadra della poco pronunciabile cittadina di Székesfehérvár, luogo di nascita del primo ministro Viktor Orbán. Dal 2013 Nego ha constatato la deriva oltranzista della politica locale, è stato oggetto di ululati dagli spalti in diverse trasferte, eppure non s’è mai sentito straniero, tanto da aver scelto di indossare la maglia dell’Ungheria una volta preso atto che non sarebbe mai stato all’altezza dei Bleus. Lo scorso 12 novembre ha risolto l’avventuroso play-off contro la favorita Islanda, con Rossi costretto sul divano di casa per colpa del Covid e collegato telefonicamente con il vice Cosimo Inguscio in panchina. Sotto 0-1 a sei minuti dalla fine, Rossi e Inguscio si sono giocati l’ultimo cambio mandando in campo Nego, che quattro minuti dopo ha pareggiato con un tocco in mischia e ha esultato baciando lo stemma dell’Ungheria, una croce di Lorena e un pallone di cuoio simile a quello che Puskas e compagni infilarono otto volte nella porta della Germania Ovest il 20 giugno 1954, illudendosi che il titolo Mondiale fosse ormai a portata di mano.

 

67 anni dopo, il 23 giugno 2021 all’Allianz Arena di Monaco, i rapporti di forza tra Germania e Ungheria saranno leggermente ribaltati anche perché mancherà Dominik Szoboszlai, il delizioso classe 2000 del Lipsia autore a tempo scaduto del gol del 2-1 contro l’Islanda, la cui assenza per infortunio ha azzerato le possibilità dell’Ungheria di essere competitiva. Tutto congiura affinché siano la ventiquattresima delle 24 partecipanti, il proverbiale vaso di coccio da seppellire di gol anche per questioni di differenza reti. Amplificando il destino di Marco Rossi, uomo qualunque a partire dal nome-e-cognome talmente anonimo che sembra uno di quelli finti sulle carte di credito delle pubblicità: un uomo abituato a non dare nell’occhio, ignorato anche dall’ex compagno Mancini (“Mi ha chiamato una volta quando suo figlio giocava nell’Honved, poi non l’ho più sentito”). Finché, un giorno a Budapest...

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