Giro d'Italia. Vince Martin, Bernal fatica. Una nuova prospettiva a Sega di Ala

Giovanni Battistuzzi

Nella diciasettesima tappa João Almeida e Simon Yates hanno staccato per la prima volta la maglia rosa. Abbastanza per smussare le semi-certezze che la corsa aveva imposto sinora e rinforza le speranze di chi vorrebbe riscrivere il finale

Che la diciassettesima tappa del Giro d’Italia non sarebbe stata come tutte le altre frazioni di montagna di questa edizione della corsa rosa lo si era capito dal mattino. Per la prima volta il cielo che faceva da cornice alle cime montane era sereno. Solo poche nuvolette, bianche come lo zucchero, spezzavano l’azzurro del cielo. Non era mai successo in questi diciannove giorni di pedalate in giro per l’Italia, almeno quando la strada puntava verso l’alto.

E così, quasi a giustificare che a un cambio di clima ci debba essere doverosamente un cambio di contesto, ecco che l’ascesa verso Sega di Ala smussa le semi-certezze che la corsa aveva imposto sinora e rinforza le speranze di chi vorrebbe riscrivere la storia di questo Giro.

Sono bastati gli ultimi cinque chilometri degli undici dell’ultima salita di giornata a dare una nuova prospettiva ai prossimi giorni, a far riapparire tutti i dubbi vecchi di due settimane, quelli che tormentavano più o meno tutti i pretendenti alla maglia rosa. Chi pensava di averli fugati, si ritrova di nuova davanti a essi, fa temere loro un possibile ribaltamento di scena.

Egan Bernal sull’ultimo tratto verticale dell’ascesa che porta a Sega di Ala ha infatti perso le ruote di Simon Yates e João Almeida. E pure del compagno di squadra Daniel Felipe Martinez. Non era mai accaduto. L’inattaccabilità della maglia rosa è evaporata in poche pedalate. Quelle zigzaganti, quelle che in un attimo hanno creato un solco con gli altri. Questa volta però non alle sue spalle, ma davanti ai suoi occhi.

Già sullo Zoncolan Simon Yates aveva provato a sfidare il colombiano, ma gli era andata male. Poi per l’inglese erano arrivate le difficoltà verso Cortina d’Ampezzo. Un salto a vuoto, come quello che ogni tanto si concede una catena prima di riprendere a muoversi spinta dai denti di moltiplica e pignone.

Un salto a vuoto come potrebbe essere quello capitato a Bernal. Cinquantatré secondi concessi all’avversario non sono un’enormità. Anche perché solo sei corridori lo hanno preceduto sotto lo striscione d’arrivo e in classifica Damiano Caruso, che è arrivato tre secondi davanti a lui, è distante ancora due minuti e ventun secondi. Il siciliano ha fatto oggi quello che ha fatto per ogni tappa da quando è diventato capitano in sostituzione di Mikel Landa. Ha pedalato al suo ritmo, che è elevatissimo per quasi tutti, senza fregarsene di quello che facevano gli altri. Pedalata dopo pedalata ha raggiunto chi lo aveva staccato, elegante e tempista.

Eppure cinquantatré secondi sono il miglior carburante per ringalluzzire gli animi, l’invito perfetto per credere che nulla sia già scritto e che tutto sia davvero possibile. Sono l’ingresso in un terreno inesplorato, nel quale le speranze possono scontrarsi con la realtà. E questo scontro non è detto che possa davvero far bene a chi insegue. Anche perché chi sembra pedalare meglio tra tutti è chi per vincere questo Giro dovrebbe sperare in un cataclisma.

João Almeida la sua giornata di difficoltà l’ha patita a inizio corsa, verso Sestola. Cinque minuti dei quasi nove che lo separano da Egan Bernal li ha persi lì, gli altri qua e là per ordini di scuderia quando doveva essere l’ultimo uomo di Remco Evenepoel. Il belga però è saltato, si è perso nelle sue paure di cadere verso Montalcino, poi si sono fatti sentire i nove mesi senza correre dopo il volo giù da un ponte al Giro di Lombardia.

Si guarda mica alle spalle però João Almeida. Pensa al futuro, prova a immaginare come sarebbe bello realizzare l’impossibile. Certo forse non la maglia rosa, ma il podio? Le gambe di Hugh Carty, Aleksandr Vlasov e Romain Bardet oggi sembravano legnose. Martinez va forte, ma ha come primo interesse quello di proteggere il suo capitano in maglia rosa. E a un ragazzo di nemmeno ventitré anni non si può negargli la possibilità di una rivoluzione. L’età è quella giusta.

Il portoghese è riuscito a staccare tutti, non è però riuscito a prendere Dan Martin, che si era avventurato in una fuga che sembrava non poter arrivare, ma che lui si è ostinato a portarla al traguardo. Un duro a morire l’irlandese. Si era speso a lungo sul Passo di San Valentino mentre gli uomini di classifica cercavano giovamento nel seguire l’incedere dei compagni di squadra. Ha continuato a farlo verso Sega di Ala, rendendo inconcludenti i tentativi di riprenderlo.