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Giro d'Italia. Bernal tra Dolomiti e gelo

Giovanni Battistuzzi

A Cortina d'Ampezzo la maglia rosa vince una tappa accorciata a causa del maltempo. Le guglie delle Dolomiti non si vedono. Quello che si è visto è l'ennesima grande prova di Damiano Caruso, terzo al traguardo e secondo in classifica

Le guglie delle Dolomiti non si sono viste, sono rimaste nascoste dai nuvoloni, del tutto indifferenti dagli sforzi dei corridori che sulle strade che si sono arrampicati verso i passi montani, che li hanno ridiscesi, provando a riconquistare valli del tutto ipotetiche, invisibili dalle cime delle montagne.

Doveva essere un vagare d’alta quota la sedicesima tappa del Giro d’Italia 2021. Lo è stato, ma in maniera ridotta, mutilata. Via il Passo Fedaia, via il Passo Pordoi, a causa di discese che rischiavano di trasformarsi in lastre di ghiaccio.

 

Grama vita quella dei corridori, costretti dal maltempo a penare più di quello che le pendenze e i chilometri ascensionali gli avrebbero costretti. Grama vita pure quella degli organizzatori stretti come sono tra le doverose richieste di altura, di chilometri in salita, di spettacolo, e tra quelle altrettante doverose di sicurezza. Qualsiasi scelta presa è un pugno nello stomaco a una parte degli appassionati. Tocca non ascoltare, andar avanti e non pensare alle polemiche. L’Italia è un paese particolare, si crogiola nel dare contro a qualcuno. Il ciclismo è pieno di precedenti estremi, di tappe arrivate a conclusione nella neve. La tappa del Bondone, quella che diede il Giro del 1956 a Charly Gaul, è ancora ricordo comune. Il gruppo arrivò in cima al monte che sovrasta Trento più che dimezzato. Agostino Coletto, quarto all’arrivo quel giorno, disse: “Fu una follia, il problema non fu solo la neve sul Bondone, ma la paura delle strade ghiacciate prima del Bondone”. Oggi il problema era questo. Giù dal Fedaia e dal Pordoi le condizioni erano al limite della percorribilità, ha prevalso il compromesso: una discesa al posto di tre. O il problema era questo almeno al mattino. Poi le cose sono un po’ migliorate. Forse si poteva transitare. Ne valeva la pena?

 

   

Della tappa che doveva essere ha resistito solo il Passo Giau, oltre alla Crosetta, l’overture alla Dolomiti, il passo che precede il Pian del Cansiglio. Poco male. La tappa ha offerto il meglio che le montagne possono concedere lo stesso. Lo hanno fatto in tanti. L’ha portato all’arrivo Egan Bernal. Uno scatto secco a cui nessuno è riuscito a replicare. Uno scatto secco che ha scombussolato qualsiasi volontà di resistenza.

Egan Bernal si è infuturato verso la cima del Giau, ha tracciato un solco tra lui e tutti gli altri. Ha inserito secondi ai secondi che aveva già guadagnato.

“Volevo fare spettacolo”, “volevo fare qualcosa di speciale”, ha detto la maglia rosa a Stefano Rizzato a fine tappa. Ci è riuscito. Uno spettacolo che non si è visto in televisione, ma che sono riusciti a vedere chiunque si sia azzardato a salire lungo le strade del passo divenuto, strada facendo, Cima Coppi.

Egan Bernal è arrivato a Cortina d’Ampezzo da solo. Senza nessuno attorno. Con l'unica preoccupazione di togliersi di dosso il giubbino della squadra per mostrare a tutti la maglia rosa. Un gesto forse inutile, anzi addirittura dannoso per la classifica generale (qualche secondo l'ha perso), ma che è un tributo alla maglia rosa che indossa, rende onore a una storia che è iniziata nel 1931 con Learco GuerraRomain Bardet e Damiano Caruso hanno concesso 27 secondi al colombiano, Giulio Ciccone, Hugh Carthy e João Almeida oltre un minuto e dieci. Ci è arrivato dopo aver rimandato al mittente qualsiasi idea di rivalsa. Idee, non tentativi. Hugh Carthy ha messo la squadra a tirare, ma non è riuscito a tradurre in realtà la sua volontà di rivolta. Come lui tutti gli altri. Quelli che erano stati con lui in gruppo. Quelli che avevano provato l’azzardo della fuga.

Sulla strada che conduceva alla Crosetta avevano provato l’avventura in tanti. Ce l’avevano fatta in ventisei. Sono riusciti a portarla avanti in sei: João Almeida, Davide Formolo, Amanuel Ghebreigzabhier Gorka Izagirre, Antonio Pedrero, Vincenzo Nibali. Hanno esplorato l’avanguardia della corsa per un centinaio di chilometri, non ce l’hanno fatta.

 

Egan Bernal ha forzato e ha trovato la libidine della solitudine. Alle sue spalle Damiano Caruso ha continuato a fare quello che aveva iniziato da inizio corsa. Una straordinaria prova di resistenza alla forza del colombiano e soprattutto allo stupore che continua a generare attorno alla sua posizione in classifica. Valgono le parole di qualche anno fa di Nibali: “Damiano ha capacità che lo potrebbero portare sul podio di una grande corsa a tappe. Sono orgoglioso che mi abbia dato una mano”. Parole stanno trovando la sua ultima giustificazione ora.

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