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Tra le maglie rosa regalate di Silvano Contini

Marco Pastonesi

In tredici anni da professionista, oltre ai quattordici simboli del primato vestiti, ha vinto una quarantina di corse. "A me mancava qualcosa per essere un campione, qualcosa che hai o non hai, che non costruisci". Nessun rammarico però

Delle quattordici maglie rosa - sei conquistate al Giro d’Italia nel 1981, una nel 1982, due nel 1983, cinque nel 1989 – glien’è rimasta una sola: “Dev’essere in un cassetto, da qualche parte, non so neanche dove. Le altre me le hanno chieste e le ho regalate. Ma ho fatto così anche per i trofei: mi è rimasto solo quello della Liegi-Bastogne-Liegi”.

Silvano Contini potrebbe tirarsela: in tredici anni da professionista, oltre alle quattordici maglie rosa (e a quella, definitiva, bianca di migliore giovane al Giro del 1979), ha vinto una quarantina di corse, le ha vinte di tutti i generi, giri e tappe, classiche italiane e classiche-monumento, cronoprologhi e cronocoppie, cronosquadre e cronoscalate, e le ha vinte in tutti i modi, in volata e in fuga, in gruppetto o da solo. Invece ricorda, racconta, spiega come se quei primati, quelle vittorie, quei piazzamenti (sempre al Giro: quinto nel 1979, quarto nel 1981, terzo nel 1982) appartenessero a un altro corridore. Più che modestia, semplicità. Più che umiltà, realismo. E nessun rimpianto, nessun rammarico, nessuna polemica.

 

Il chilometro zero: “Le prime corse, andata da casa a scuola e ritorno da scuola a casa, variando e allungando, con i compagni. Avevo una bici da donna, quella di mia madre. Eppure battevo tutti, anche quei due che correvano già fra gli esordienti. Se batto loro che corrono – pensai – allora posso correre anch’io. Per la prima bici da corsa dovetti aspettare di essere alle superiori. Una vecchia Legnano di mio zio. A casa si riciclava tutto, non si buttava via niente, certi piccoli tesori venivano tramandati, con passione, come per una missione, come in un’eredità. E con quella bici gareggiai fra gli allievi. Non mi chieda della mia prima corsa: non me la ricordo. Ricordo però la mia prima vittoria, da allievo: era la gara di casa, si correva a Caravate e io ero iscritto alla Caravatese. Tutti curavano il favorito, Gianluigi Carretta, mio compagno di squadra, che le vinceva tutte. Quel giorno andai via, non mi rincorsero, e quando lo fecero era ormai troppo tardi, vinsi per distacco”.

Il pronti-via: “Ci provai gusto. E continuai di gusto. Studiavo e mi allenavo, studiavo e correvo, studiavo e vincevo. Una domenica vinsi la mia prima corsa da dilettante seconda serie, il lunedì avevo l’esame di maturità. Ci andai felice e contento, spensierato perché pensavo ancora alla vittoria, il mio nome e cognome e un articolo su di me sulla ‘Gazzetta dello Sport’, e grazie anche a un paio di professori appassionati di ciclismo, mi diplomai ragioniere. Al Piccolo Giro di Lombardia l’incontro decisivo con Giancarlo Ferretti: era venuto per ingaggiare Claudio Corti, che però aveva già firmato per la Zonca, ripiegò su di me. Non potevo chiedere di più né di meglio: la Bianchi-Piaggio. Senza più Felice Gimondi, c’erano tanti buoni corridori, ma nessun fuoriclasse. Così Ferretti doveva inventarsi ogni volta una tattica diversa”.

Gli anni d’oro: “Il Giro del 1981, presi la maglia rosa a Salsomaggiore, la persi sulle Tre Cime di Lavaredo, alla terzultima tappa, ma Giovanni Battaglin era più forte. E il Giro del 1982, presi la maglia rosa a Boario Terme dopo aver scalato il Croce Domini, la persi il giorno dopo a Monte Campione, ma Bernard Hinault era fortissimo, e anche molto intelligente. A me mancava qualcosa per essere un campione, qualcosa che hai o non hai, che non costruisci neanche in allenamento o in corsa. Facevo quello che potevo, che era tanto, a volte tantissimo, ma mai abbastanza per arrivare a quello che potevano fare gli altri, non solo Battaglin e Hinault, ma anche Beppe Saronni e Francesco Moser. Ed è per questo che vivo felice e dormo sereno: non ho nulla da rimproverarmi”.

Contini ha vissuto giornate in cui volava (“La Liegi-Bastogne-Liegi del 1982, soprattutto la tappa di Orvieto al Giro del 1980, staccando proprio Hinault”), ma anche quelle in cui soffriva (“Sempre al Giro, nella tappa di Rionero Sannitico e il Macerone, proprio per colpa di Hinault, presi una cotta da non andare più avanti, infatti mi fermai e mi misi a sedere su un paracarro, io – dissi – di qui non mi muovo più, poi Ennio Vanotti e Alessandro Pozzi mi convinsero a risalire in sella”), ha ricordi antichi (“Franco Bitossi, sul Cuvignone, alla Coppa Bernocchi, sotto il diluvio”) e gratitudini eterne (“Miro Panizza, prima della partenza dell’ultima tappa del Tour de l’Aude, mi ordinò di stare tutto il giorno alla sua ruota, e così fu, finché a 100 metri dall’arrivo mi invitò a fare la volata”). Ha anche racconti esilaranti: “Dino Zandegù, esplosivo ed esilarante direttore sportivo. Le sue riunioni erano divertentissime, non si sapeva mai se facesse sul serio o per finta. Domani – comandò a un giovane, Giampaolo Fregonese – sta’ sulla ruota di Baronchelli e non mollarlo mai. A fine corsa, altra riunione. E tu, vecio – domandò a Fregonese – che cos’hai combinato? Mi sono ritirato, disse Fregonese. E perché ti sei ritirato, vecio, forse stavi male? No – rispose Fregonese – mi sono ritirato perché si era ritirato Baronchelli. Ma vecio..., sillabò Zandegù. Il mio compito – gli rammentò Fregonese - era quello di non mollarlo mai. Per un attimo Zandegù, sorpreso, era indeciso se arrabbiarsi poco o tanto, infine gli rifilò una pacca sulle spalle: hai fatto bene, vecio, era giusto così”.

 


 

Al Giro d’Italia del 1931 debuttò la maglia rosa come simbolo del primato nella classifica generale. Novant’anni dopo, per celebrarla, raccontiamo brevi storie legate a quei giorni da numeri 1. Qui trovate tutte le altre puntate.

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