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Così Israele è tornato allo stadio

Francesco Caremani

“Prima è ripartita la pallacanestro, poi la pallavolo e infine il calcio. Novemila tifosi in uno stadio da 30mila (all’inizio erano 5.000), 1.500 con una capienza di 15mila e così via". Parla il giornalista sportivo israeliano Uri Levy

Dodici marzo 2021. È questa la data che i calciofili israeliani ricorderanno a lungo. Il giorno in cui, per la prima volta dopo un anno, sono potuti tornare allo stadio a tifare. In Israele, infatti, a causa della pandemia il calcio si era fermato il 5 marzo 2020, anche se è stata la pallacanestro il primo sport di squadra a giocare con il pubblico a fine febbraio, una specie di esperimento pilota. La partita di calcio si è giocata al Teddy Kollek Stadium di Gerusalemme alla presenza di 1.500 tifosi, tra Hapoel Jerusalem e Ramat HaSharon, serie B israeliana, finita 1-0 per i padroni di casa. Poi ci sono state le due partite di qualificazione a Qatar 2022 contro Danimarca (0-2) e Scozia (1-1), entrambe disputate al Bloomfield di Tel Aviv, con 5.000 tifosi presenti. “Prima è ripartita la pallacanestro, poi la pallavolo e infine il calcio. Novemila tifosi in uno stadio da 30mila (all’inizio erano 5.000), 1.500 con una capienza di 15mila e così via; per quanto riguarda il basket, invece, siamo al dieci per cento della capacità dell’impianto. Al momento possono accedere solamente vaccinati e guariti esibendo i certificati da cellulare, ma il governo sta pensando di aprire pure agli altri con test rapidi prima della partita”, spiega al Foglio Uri Levy, giornalista sportivo israeliano, fondatore del blog Babagol, uno dei più seguiti a livello internazionale nel circuito dell’indie journalism, tifoso dell’Hapoel Jerusalem e titolare dell’Estudiantes Tel Aviv (IFLI League, sesta divisione israeliana), con un debole per Tottenham Hotspur, Psg e Celta Vigo.

 

Le regole sono semplici. Distanziamento sociale e biglietti digitali, niente carta, alcun contatto. Inoltre si devono produrre le relative certificazioni agli steward e ai poliziotti che lo richiedono, tutto scaricabile dal sito del ministero della Salute israeliano con la propria carta d’identità. “Tutto molto semplice” dice Levy, il quale ci racconta un’altra realtà: “Il nostro governo ha gestito male la crisi pandemica. Poi sono arrivati i vaccini e a dicembre è partita la campagna che è stata molto rapida grazie al nostro sistema sanitario nazionale e ai dati posseduti che gli permettono di raggiungere direttamente ogni paziente. Prima è toccato ai più anziani e fragili, poi over 60, over 40, dai sedici anni in su e infine lo hanno aperto a tutti. Anche da noi ci sono i no-vax, ma al momento abbiamo vaccinato quasi cinque milioni di abitanti, il 52 per cento della popolazione. Ancora utilizziamo la mascherina e abbiamo una media di 320 nuovi casi il giorno, ma mai sopra i 500”. Il vaccino in Israele, più che altrove, è pure argomento politico: “Gli araboisraeliani possono fare il vaccino come tutti gli altri ma molti di loro non vogliono, nonostante grandi campagne mediatiche di influencer arabi. Per quello che so l’Autorità Palestinese non voleva ricevere i vaccini da Israele e hanno rifiutato il suggerimento di costruire punti vaccinali in più luoghi con loghi israeliani, quindi hanno aspettato quello russo per vaccinare i più anziani. Tuttavia 150.000 palestinesi che lavorano in Israele possono farlo e molti lo hanno già ricevuto”, afferma Uri Levy.

  

Intanto gli atleti israeliani qualificati si stanno allenando e preparando per Tokyo 2021 che sarà un altro passo fondamentale del ritorno alla normalità dello sport mondiale, con molte incognite. Per quanto riguarda il calcio, invece, alcuni giocatori hanno contratto il Coronavirus ma la maggior parte adesso è vaccinata, sia nei vari club che in Nazionale e questo evita, per esempio, quello che è accaduto all’Italia e sta accadendo in serie A. Il Covid-19, però, ha colpito duro anche in Israele: “La situazione economica delle società calcistiche è pessima, soprattutto di quelle più piccole e con meno risorse. Stanno ancora in piedi grazie agli aiuti governativi, ma tutti temono il dopo, quando questi finanziamenti non ci saranno più. Non c’è stata un’organizzazione particolarmente efficace per questo tipo di ristori, ma alla fine tutte le società sportive, in qualche modo, sono state aiutate”, racconta Uri. Levy si divide tra Gerusalemme e Giaffa nell’attesa di riprendere a viaggiare: “È cambiato il modo di lavorare, più da remoto e maggiormente tecnologico, ma quello che mi manca davvero è la libertà di andare all’estero e assistere agli eventi sportivi, per poi raccontarli ai nostri lettori. Il calcio senza tifosi non è niente, è deprimente, ma ho continuato a seguire le partite locali per sentirmi vivo e per raccontare agli israeliani e ai palestinesi cosa accadeva e cosa era il calcio dentro gli stadi al tempo della pandemia”.

  

Babagol è specializzato nel narrare il calcio di quelle porzioni di mondo generalmente dimenticate, dal Medio Oriente all’Africa, dall’America Latina all’Asia, sempre con un taglio sociale, politico e culturale: storie alternative, che è la cifra di questa testata e del suo fondatore. “La pandemia ci ha cambiati, nel modo di pensare e di vivere, al di là di tifosi e giornalisti sportivi, nonostante il nostro continuo ritorno verso la normalità, molto persone lavorano da casa e la loro vita si è adattata a questa situazione. Anche Babagol è cambiato. Abbiamo iniziato a descrivere il calcio sotto la lente del Coronavirus, continuando a offrire la nostra edizione scouting, scoprendo talenti in giro per il mondo, e long-form. Pure le storie sono cambiate, ma non è cambiato il modo di raccontarle e la passione per il calcio, quello vero, con i tifosi, quella c’è ancora”. Una passione che nelle ultime settimane, in Israele, ha rivisto la luce, mentre altrove cova sotto la cenere, sognando (come in tutti gli altri settori fermi, dalla cultura alla ristorazione), il giorno in cui sarà possibile tornare allo stadio a tifare e cantare.

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