That win the best

Gli spalti pieni per Kyrgios e i social vuoti per razzismo

Il tennis in Australia ci ricorda la bellezza dei tifosi, la Premier sogna il controllo preventivo sui tweet

Jack O'Malley

Se io dico che fare giocare Gareth Bale titolare in questo momento è  assurdo come fare interpretare Anna Bolena in una serie tv da una attrice nera (tutto vero), mi chiudono l’account? 

L’Australia è stata colonia britannica, non posso che provare simpatia per la provincia dell’Impero. Soprattutto dopo che venerdì mattina ci ha ricordato in modo prepotente che  lo sport con il pubblico dal vivo rispetto ai mesti spalti vuoti di questi mesi è come un bicchiere di vino ghiacciato sorseggiato  in una vasca da bagno bollente rispetto a  farsi il bidet in un fosso: i tifosi in delirio per lo show da fuori di testa del tennista di casa Nick Kyrgios agli Open d’Australia sono qualcosa che riconcilia con la vita, non soltanto con le manifestazioni sportive. Urla, boati, applausi, sudore, ormoni intrugliati e cori hanno trasformato quella che sarebbe stata probabilmente una spietata lezione di tattica dell’austriaco Dominic Thiem in una folle partita incerta fino all’ultimo game. Ma poiché le cose belle sono come gli allenatori del Genoa, non durano, ecco che durante il match tra Djokovic e Fritz si è assistito al più grande trionfo della burocrazia di questi giorni (dopo il governo Draghi, of course): poiché sono stati trovati ben TREDICI positivi al Covid in tutta Melbourne, si è deciso di chiudere gli spalti dell’Open per cinque giorni – il sogno erotico di Crisanti e Ricciardi. L’ordinanza partiva dalla mezzanotte, ed ecco che alle 23.30 tutti gli spettatori presenti sugli spalti della sfida fra il tennista serbo e l’americano sono stati invitati ad andarsene, in tempo per essere a casa entro le 23.59. L’urlo di Nole alla fine del quinto set è stato registrato soltanto da giudici, raccattapalle e telecamere, facendoci ripiombare nell’incubo dello sport ricattato dai lockdown e ammosciato dal legislatore-balia.
Ma poiché gli amici democratici ci insegnano che – ahem – “il vero virus è il razzismo”, ecco che la Premier League ha deciso di dire basta a insulti e offese dei tifosi sui social. Con una accorata lettera a Facebook, Instagram e Twitter, dirigenti, calciatori, calciatrici e varie associazioni di categoria hanno chiesto più controllo su tweet, post e commenti dai toni razzisti e sessisti verso arbitri, allenatori e atleti. La colpa, ci spiegano gli esperti, è naturalmente della Brexit, dei social e del lockdown: turbe di annoiati neonazionalisti si sfogano insultando via smartphone i giocatori di colore. Da qui la democratica richiesta di un filtro ai post razzisti PRIMA che vengano pubblicati, l’identificazione immediata degli autori e un trumpianissimo ban eterno dalle piattaforme social per i colpevoli. Tutto giusto, non si vede perché debba essere tollerato l’insulto razzista su bacheche o profili che possono leggere tutti. Già, ma qui c’è il problema: che cosa è razzista? Il “negru” del quarto uomo di Psg-Basaksehir no, ad esempio, nonostante due giorni di linciaggio social (ma guarda un po’) nei confronti del povero arbitro rumeno. E nemmeno il “negrito” di Cavani all’amico uruguaiano sotto a un post su Instagram che gli è costato una squalifica. Con che criterio un post verrebbe bloccato prima di essere pubblicato? E se io dico che fare giocare Gareth Bale titolare in questo momento è  assurdo come fare interpretare Anna Bolena in una serie tv da una attrice nera (tutto vero), mi chiudono l’account? 

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