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Il vincitore del Giro del 2017 e le incertezze dei campioni della bicicletta

Tom Dumoulin e il peso del ciclismo

Giovanni Battistuzzi

Il ciclista olandese ha deciso di concedersi una pausa dal professionismo. I corpi sempre più al limite dei corridori e quello che Alfredo Martini avva già capito nel 2013: “Il ciclismo si sta evolvendo da sport di resistenza in sport di persistenza”

Era il 2013 quando Alfredo Martini, corridore ai tempi di Bartali e Coppi e per vent’anni commissario tecnico della Nazionale italiana di ciclismo, sottolineò a Radio Rai come il ciclismo si stava evolvendo “da sport di resistenza in sport di persistenza”, in quanto “saper sopportare la fatica non è più sufficiente, le qualità in bicicletta sono ormai solo una parte di questo sport, quello che è più visibile, quello delle gare, ma ormai serve altro: serve saper resistere di testa a tutto il resto”. Quel tutto il resto era composto da allenamenti, stage, ritiri sempre più frequenti, viaggi e gare in ogni luogo del mondo, mesi lontani da casa. “Quando correvamo noi lo facevamo perché la bici ci consentiva di fare due cose: sperare di avere un futuro, soprattutto ci permetteva di mangiare e far mangiare le nostre famiglie. Qualsiasi fatica ci sembrava se non giusta, quantomeno affrontabile. Per fare il ciclista oggi si deve avere una grande convinzione e abnegazione, quasi nessun ciclista pedala per scappare dalla fame, perché per diventar ciclista devi fare la fame”.

 

Più watt, più pedalate al minuto, meno peso. Il mantra della Us Postal di Lance Armstrong è diventato quello del ciclismo intero. La bilancia si è fatta dogma, il misuratore di potenza vangelo. O almeno per gran parte del gruppo, per la quasi totalità degli uomini che hanno come ambizione quella di fare bene in una corsa a tappe di tre settimane. Qualche sacca di resistenza esiste ancora, ma sono sempre in meno e giocano ai pirati con il ciclismo: corridori che vanno all’attacco e non si curano delle classifiche, anarchici del pedale, gente a posto, che ancora si diverte a scorrazzare alla giornata per le corse. Il ciclismo non è solo fatto di fughe però. Contano soprattutto le classifiche e i piazzamenti. Meglio settimo e anonimo che ventesimo e sempre all’attacco. Questione di punti, di classifiche Uci, di premi da portare al team. Almeno a far i conti nel portafoglio, fortuna che a tutto questo qualcuno non dà peso e continua a pedalare a suo modo.

  

Nel 2013, a nemmeno un anno dalla vittoria del Tour de France, Bradley Wiggins confessò al Guardian che “sognavo di vincere il Tour. L'ho fatto. Se devo essere sincero però non credo di poter riuscire a ripetere i sacrifici fatti l'anno scorso. Sono stati anni difficili per me, un viaggio difficile durato quattro anni. A essere onesto non so se vorrei ripetere tutto questo. Ho anche altri obiettivi e ci sono altre cose che mi piacerebbe provare a fare”. Tre anni dopo, alla BBC, Wiggins, ritornando a quegli anni, sottolineò che per preparare una grande corsa a tappe “serve rinunciare a tanto, quasi a tutto: famiglia, amici, affetti, piaceri. Si vive di dati: watt, peso-potenza, vam, pedalate al minuto, chilometri da fare, secondi fuori soglia e secondi di semirecupero. E attorno ai dati si costruisce la stagione”. Riassunse quel 2012 in una battuta: “Non ho mai procrastinato così tanto una birra, non ho mai avuto così voglia di bermene una”.

   

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Quello del 2012 fu l’ultimo Tour di Wiggins. La squadra non lo selezionò più, un po’ perché Chris Froome era diventato l’uomo attorno al quale la Sky voleva costruire le nuove vittorie, un po’ perché il baronetto aveva scelto di provare il Giro nel 2013 e poi aveva staccato, non aveva “più la testa per affrontare un giro di tre settimane”, disse il general manager del team inglese, Dave Brailsford.

  

Aveva staccato, “perché per provare a fare classifica in un grande giro serve sacrificare sull’altare del ciclismo tutto il resto. Tenere da conto solo i dati fisici, annullare tutto il resto, a volte anche se stesso”.

  

“Troppo a lungo ho dato peso a quello che pensano gli altri: ma io cosa voglio? Cosa desidera l’uomo Tom Dumoulin in questo momento della sua vita? È una domanda che mi facevo da mesi, senza mai avere il tempo di rispondere, perché la vita da ciclista professionista va avanti coi suoi ritmi. Ma quella domanda rimane. Cosa voglio? Voglio ancora essere un ciclista? E se sì, in che modo? In questo momento non so bene cosa fare. Per questo motivo ho deciso di fermarmi per un po’”, ha detto Tom Dumoulin in un video apparso sul sito e sul canale YouTube della sua squadra, la Jumbo Visma nel quale annunciava di aver deciso di prendersi una pausa del ciclismo. Non un ritiro per ora, una sospensione della sua attività professionistica: la decisione di concedere tempo al tempo.

   

       

Dumoulin si è sospeso dal ciclismo per provare a rispondere a quelle domande che lo assillavano da un po’, per capire se ha ancora le capacità di essere un professionista. Capacità di sopportare la vita ciclistica, le sue privazioni, ciò che è necessario per restare tra i migliori. 

  

Più volte in questi anni il ciclista olandese aveva esternato un sottile malessere. Aveva con parole disincantate descritto il suo ciclismo, quello che viveva da dentro, fuggendo sempre dal romanticismo di chi guarda il passato. Non c’era in lui nostalgia per la versione d’antan di questo sport. E non poteva essere altrimenti. Tom Dumoulin è uomo di questi anni che al ciclismo è arrivato per piacere, non per sogno, che alle corse avrebbe preferito le corsie di un ospedale: medico. È un uomo per cui alla bici si è appassionato ma che l’ha sempre vissuta con un occhio a cardiofrequenzimetro perché “serve studiare i dati per migliorare se stessi”, disse nel 2014 a Eurosport dopo il primo bronzo ai mondiali (a cronometro).

   

Quelli che lo hanno fatto sbottare a settembre dopo l’impresa di Tadej Pogačar nell’ultima cronometro del Tour de France dell’anno scorso: “Non so come abbia ad essere un minuto più veloce di me. I miei valori erano degni del Mondiale che ho vinto. Ecco perché sono rimasto ancora più sorpreso dal fatto che Pogacar fosse 1'21'' sotto il mio tempo”. Gli stessi di cui aveva parlato nel 2019 in un’intervista a Soigneur: “Credo che abbia già raggiunto in un certo senso i miei limiti fisici. Ci stiamo allenando davvero bene... e c'è pochissimo margine da guadagnare. Anche il mio corpo ha il suo limite, e l'ho raggiunto. Negli ultimi anni, non ho pedalato più forte. L'unico modo grazie al quale sono migliorato è stato aumentando la mia resistenza e riducendo il mio peso”.

   

Al di là degli scatti, delle sfide in salita, di quelle a cronometro, delle imboscate nel vento, le corse a tappe sono diventate una processione di pelle e ossa, di muscoli sottili che spuntano da gambe ancor più sottili, di fisici prosciugati. I forzati della strada raccontati da Albert Londres sulle pagine del Pétit Parisien (poi raccolte nel libro “Tour de France, Tour de souffrance”), sono diventati forzati della magrezza, dei dati, del rapporto peso potenza. Un rapporto dove il primo è sempre meno e la seconda sempre maggiore. L’estremizzazione del ciclismo, la sua ricerca di una sempre maggiore magrezza e la dittatura dei dati fisiologici ha eroso progressivamente ciò che molte volte ha tenuto in sella i campioni della bicicletta: la speranza che il talento potesse ribaltare ciò che la strada aveva iniziato a dire. Lo spazio per una riscrittura del futuro si è ridotto e con la sua riduzione ha prosciugato, oltre ai corpi anche le motivazioni, i tentativi di redenzione. L'improvvisazione ha assunto un rilievo minimo all'interno dello scacchiere di una corsa a tappe (le corse di un giorno ancora resistono).

  

Tom Dumoulin è entrato in quel terreno minato nel quale era transitato qualche anno fa il suo ex compagno di squadra, nonché amico, Marcel Kittel. Lo sprinter tedesco nell’agosto del 2019 aveva annunciato l’addio al ciclismo: "Come ogni ciclista professionista vivevo viaggiando lontano da casa per circa 200 giorni all’anno. Io però non voglio continuare a vedere mio figlio crescere via Skype. Nel ciclismo di oggi non c’è tempo per la famiglia e per gli amici; in compenso c'è tanta stanchezza e troppa routine quotidiana", aveva detto allora.

  

In un post su Instagram l’ex velocista tedesco ha avuto parole dolci per l’ex compagno di squadra: “So per esperienza personale come ci si sente e quanto può essere difficile quando si dubita di ciò che si fa e si vuole guardare oltre. Solo il tempo ti darà le risposte e spero che Tom che le possa trovare presto. Fino a quando accadrà gli auguro la stessa forza che ha dimostrato di avere in bicicletta, per questa parte della sua vita e per tutti coloro che si trovano nella stessa situazione e cercano di imparare un po’ di più di quello che sono. So che è un viaggio con una destinazione incerta, ma è anche una lezione di vita molto importante ritrovare la propria bussola interiore, ricalibrarla e dirigersi verso la propria direzione futura”. Parole di chi in una situazione di debolezza si è trovato e che ha deciso che la vita è fatta di priorità alle quali bisogna dare il giusto peso.

  

Kittel il ciclismo lo ha lasciato, ha rifiutato l’offerta arrivata da Dumoulin (sia a fine del 2019 che all’inizio del 2020) di ritornare a correre con lui alla Jumbo-Visma. La bicicletta però non l’ha mai abbandonata. “Pedalo molto ancora, sia per conto mio che con la mia famiglia. Il ciclismo l’ho lasciato alle spalle, non potrei mai lasciarmi alle spalle la bicicletta però”, ha detto a novembre a ottobre alla ZDF.

  

La speranza è che Dumoulin possa ritrovare la serenità perduta pedalando per un po’ lontano dal ciclismo. E che il ciclismo possa avvicinarsi un po’ di più al piacere del pedalare, distaccandosi dall'ossessione dei dati per riscoprire l'ebbrezza dell'ignoto. 

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