Eleborazione grafica da foto Wikimedia Commons

Quando Vladimir Yashchenko volava. Ventrale

Giovanni Battistuzzi

L'atlera sovietico era una resistenza. Trentun anni fa l'addio all'ultimo grande ventralista della storia del salto in alto

Quegli occhi persi nel vuoto, quasi smarriti, che sembravano chiedere e chiedersi che ci faccio qui, si accendevano al primo passo in pedana. Assumevano una determinazione e una spietatezza che nessuno avrebbe ritenuto possibili solo qualche secondo prima. Al secondo passo nessuno più faceva caso agli occhi. Perché da quel momento quel corpo lungo e sottile non sembrava più essere quello di un atleta, ma di un danzatore. L’armonia e la grazia di quel movimento rendevano tutto il resto secondario. Un passo dopo l’altro sino al passato che si fa sorpresa. La gamba sbagliata che dà lo slancio, la spalla sbagliata che si fa perno, il lato sbagliato che si fa inarcamento. Il ritorno di un qualcosa che sembrava non esistere più. Quello che doveva essere estinto dalla storia e dal progresso che riappare in modo così aggraziato e prepotente. Veniva quasi il dubbio che la reazione non fosse davvero rivoluzione. E quel corpo che si alza, si eleva, quasi ascende. In alto, ancora più in alto, talmente in alto da diventare record. Record del mondo. Ma nel modo sbagliato, quello che non doveva più esistere: ventrale.

 

Vladimir Yashchenko era una resistenza. Una resistenza alla rivoluzione di schiene piegate e pance all’aria. Una resistenza alla scienza che spiegava come il modo migliore di saltare un’asticella fosse quello che aveva brevettato Dick Fosbury grazie all’invenzione di materassini più alti e più soffici. Una resistenza al buon senso che imporrebbe di seguire l’esempio di chi è riuscito a superare il record del più forte di tutti i tempi (o almeno di allora), Valeri Brumel, pur non essendo il più forte di tutti i tempi.

 

  

Vladimir Yashchenko non aveva mai visto saltare Valeri Brumel dal vivo, ma nel mito di Valeri Brumel era cresciuto. E non poteva essere altrimenti per un ragazzo che all’atletica c’era arrivato per caso, dopo essersi dedicato con gran talento e poca fortuna alla pallamano, e che dagli allievi, prima, e dai mentori, in seguito, di Brumel era stato fatto diventare un atleta.

  

Erano gli inizi degli anni Settanta quando Vladimir Yashchenko iniziò a saltare. E all’inizio degli anni Settanta a capo del salto in alto dell’Unione Sovietica c’era un uomo che veleggiava a metà tra il mito e la santificazione, ovviamente a falce e martello. Vladimir Dyatchkov era metà scienziato e metà guru. Era soprattutto animato da un sincero e convinto rifiuto per tutto ciò che arrivava dall’America, una sfiducia totale del modo americano di vivere e di interpretare lo sport. E il Fosbury non era altro, per lui, che una facilitazione sgraziata della perfezione stilistica del salto ventrale.

  

Dyatchkov era uno che aveva una sola regola: potete fare tutto quello che volete, in pedana e nella vita; l’importante è che lo facciate come lo dico io. Dyatchkov plasmò Yashchenko, lo allenò, lo migliorò. Yashchenko fu la dimostrazione che il guru sovietico aveva ragione. “Peccato che anche senza Dyatchkov, Volodja sarebbe stato comunque il migliore”, dice al Foglio Nikita Pleeysov, che con Yashchenko mosse i primi passi. “Volodja era fatto per saltare e per saltare ventrale. Aveva gambe infinite, caviglie che sembravano molle, ossa sottili e leggere, ma anche una colonna vertebrale che sembrava una strada di montagna, una leggera gobba dovuta alla scogliosi. Avesse saltato Fosbury sarebbe stato uno dei tanti. A saltare ventale invece era una meraviglia, armonia pura. Dyatchkov gli ha dato il via, poi lui ha fatto quasi tutto da solo. Anche perché a uno come Volodja gli potevi pure dire come si doveva fare una cosa, se andava bene ti ascoltava, faceva cenno di sì, poi si perdeva nei suoi pensieri e ciao. Faceva come diceva lui. E come faceva lui era sempre meglio”.

  

Perché Vladimir Yashchenko era anche una resistenza alla disciplina, a chi lo voleva prototipo di un mondo che nemmeno lui aveva capito cos’era. Era una resistenza alle regole, non per velleità di bastian contrario o rivoluzionario, ma perché non gli erano mai interessate, non aveva mai compreso a cosa servissero.

  

Yashchenko era leggero nel corpo, nello sguardo, nello spirito. Soprattutto con le donne. Il partito sopportava perché in una rassegna pro disgelo tra la rappresentativa juniores sovietica e americana di atletica migliorò il record del mondo: 2.33, ventrale. Americani e sovietici, capitalisti e comunisti in piedi ad applaudire all’unisono quel gesto portentoso.

   

E poi lo migliorò ancora al coperto, ai Campionati europei indoor di Milano. Era il 12 marzo 1978 e al Palasport salì fino ai 2,35, ventrale. Oro. Anche in quel caso tutti gli spettatori, circa ventimila, si alzarono in piedi.

 

  

Ho visto coi miei occhi saltare in alto

Due metri e 35 centimetri

Ventrale

A Vladimir Yashchenko

Non so se ci siamo spiegati”.

Gli Offlaga Disco Pax raccontarono quel giorno in Ventrale. Sintetizzando in modo magistrale, anzi “momorabile”, cosa è stato quel salto di Vladimir Yashchenko.

La vittoria di Vladimir fu un eroismo da Terza Internazionale

Una misura strappalacrime ottenuta dall'ultimo grande

Ventralista della storia

Con tanti saluti a Jacek Wszola e al suo amico

Lech Walesa

E pure a quel gran fenicottero di Dietmar Mögenburg

L'unico fosburysta giustificato è il compagno

Javier Sotomayor”.

 

 

E migliorò di nuovo il record del mondo agli Europei di atletica leggera a Tblisi sempre nel 1978: 2.34, ventrale.

 

Il partito sopportava perché Yashchenko era resistenza all’avanzata della modernità dell’Occidente che si incarnava nel Fosbury. E sopportava il suo essere diventato desiderato, amato, idolatrato, soprattutto il suo essere diventato volto dello sport in un sistema che bramava essere solo essere potenza e cercava di sopire ogni personalismo.

 

Vladimir Yashchenko era leggero anche nella vita, quasi come se il salto in alto non fosse soltanto una disciplina sportiva ma anche una dimensione dell’anima. Era leggero di sorrisi, quelli che faceva agli spettatori sotto la sua chioma morrisoniana; di costumi, tante donne, tante sigarette e tanta vodka; di vita, nei circoli russi, nei bar e nelle discoteche quando girava il mondo. Leggero nelle gambe, quelle che saltavano ma che “avevano bisogno di riposo, perché si infiammavano facilmente. Così da sempre. Non lo hanno fatto riposare, non hanno capito che era un cristallo purissimo, per questo fragile”, sottolinea Pleeysov.

  

Quelle gambe che si ribellarono. Due rotture dei crociati. La carriera finita a vent’anni. Provò a saltare per altri quattro, “ma non era più lui, la sua meraviglia scomparve a Kaunas nel 1979 quando si ruppe per la prima volta i legamenti. In quel momento esatto tutto si offuscò, un’ombra tremenda lo invase. Lo capivi da come ti guardava, o meglio da come non ti guardava più”, conclude Pleeysov.

 

Da quel momento le donne iniziarono a diminuire, la vodka ad aumentare.

 

Vladimir Yashchenko morì il 30 novembre del 1999, trentun anni fa oggi.

Di più su questi argomenti: