Il recupero d'oro di Pietro Mennea a Mosca 1980

Quarant'anni fa il velocista pugliese conquistava la medaglia d'oro alle Olimpiadi

Giovanni Battistuzzi

Lo sguardo, quei due occhi pallati e increduli, diceva più di ogni cosa. Più ancora del tempo impresso sul tabellone: 20"19. Perché sui duecento metri piani aveva corso più forte, 19"72, quasi un anno prima, il 12 settembre 1979 a Città del Messico. E allora fu record del mondo.

 

 

Allora si correvano però le Universiadi, lo stadio era mezzo vuoto, gli avversari di un altro livello. Quel giorno invece, quel 28 luglio del 1980, quarant'anni fa, in palio c'era una medaglia olimpica, quella di Mosca 1980.

 

A Pietro Mennea il sorteggio aveva assegnato l'ottava corsia, non certo la migliore per pensare all'oro. Qualche giorno prima, sui cento metri, il pugliese non si era qualificato per la finale, le gambe erano buone, ma le sensazioni così così.

 

Allo Stadio Lenin nella capitale sovietica erano passate da pochi minuti le otto di sera, la temperatura era di 23 gradi, l’umidità al 56 per cento, il vento zero, quando dai blocchi i finalisti dei duecento scattarono. Le sensazioni così così si tramutarono in pochi secondi in una certezza di sconfitta. Mennea vide partire a razzo il britannico Allan Wells, che aveva vinto i 100 metri il 25 luglio, nella corsia affianco. All'imbocco del rettilineo è solo quarto. Ma venti secondi sono lunghi e le sensazioni mutano molto velocemente.

 

Mennea sente le gambe andare e le lascia mulinare. Gli avversari che aveva davanti non allungano, anzi sono sempre più vicini. Li recupera, li lascia dietro. Tutti. Anche Wells, l'ultimo a essere ripreso, l'unico che prova ad allungarsi in un tentativo disperato di vittoria. Che non riesce. Mennea oltrepassa il traguardo per primo, spalanca gli occhi, urla, alza le mani al cielo. La medaglia d'oro è sua.

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