Il gol di Rivera per il definitivo 4-3 alla Germania (foto Archivio LaPresse)

Cinquant'anni dopo Italia-Germania 4-3: parla Furio Valcareggi

Giorgio Burreddu

Io, papà e quel Mondiale quasi perfetto in Messico

La scatola di camicie è marca Raspini, ammaccata su un lato, smangiata dal tempo. Pesa un quintale. “Le foto me le hanno rubate. Ma dentro ci sono gli scritti del mio babbo”. Stanno disordinati in faldoncini rosso corallo, i più consumati virano al blu, al verdino, e ci si trovano pagine e pagine di appunti, annotazioni, formazioni leggendarie, tormenti e idee, lettere e testamenti dell’Italia che fu. Furio, il figlio di Ferruccio Valcareggi, dice che i ricordi non li sfoglia più, poi sì, poi no, poi sì di nuovo. E lo stesso tormento gli succede aggrovigliato alle partite. Passati i settanta è diventato nostalgico, gli è venuta la lacrima facile. “Italia-Brasile no, non la riguardo perché sono un vigliacco: le sconfitte non mi piacciono”. Ha gli occhi che scintillano. E’ un uomo massiccio, Furio. Poderoso, e divertito. “Per cinquant’anni ho fatto il mestiere del figlio di Valcareggi, un mestiere bellissimo”. Gesticola, stretto in una giacca di lino a quadri. Il figlio del ct che portò l’Italia nella modernità è anche figlio di quel Messico 70 che ha cancellato il confine tra l’incredibile e l’impossibile: la sconfitta in finale contro il Brasile, certo, ma anche Italia-Germania 4-3, la partita che è diventata film, libri, canzoni, modi di dire, immortalità. C’era anche lui. “L’Azteca era qualcosa di inimmaginabile. Un monumento alla grandezza, una cosa del genere non l’avevo mai vista”.

 

“Io al babbo lo dicevo, gliel’ho detto sempre: ‘Ma digli qualcosa, rispondi a Rivera’. E lui: ‘No no, lui sa perché non gioca’”

“C’erano piccoli appartamentini, stanze con tutti i confort che affacciavano sul campo, premevi un pulsante e sentivi il rumore dagli spalti oppure il silenzio assoluto. Io volevo stare in tribuna, vicino alla panchina del mio babbo. Ricordo il ronzio, il brusio continuo della gente, e quella follia di partita che non finiva mai, mai, mai. Al gol di Schnellinger mi dissi: ‘Ecco, s’è perso’. Di solito è chi rimonta che poi ha l’energia per vincere, no? Invece fu l’inizio di un sogno. Mi stringevo le mani, le mani mi sudavano. Vicino a me c’era Merle Oberon, una star di Hollywood, non più giovane ma ancora bella, e io la guardavo, lei sorrideva, e la partita intanto andava avanti, sempre avanti. Il 4-3 fu una liberazione, una forma di consapevolezza. Di aver fatto una cosa storica, irripetibile. Guardavo il mio babbo, in panchina. Ero felice per lui. Una volta finita corsi al ritiro dalla squadra, la Federazione passava due telefonate al giorno per l’Italia. Chiamai mamma. ‘Qui sono tutti impazziti, c’è un uomo nudo sul terrazzo di fronte che balla’, mi disse. Ciondolavo nella hall, cercavo di stare calmo ma non ci riuscivo, non potevo stare fermo, e quando arrivò il mio babbo ci guardammo, era felice, ci stringemmo in un abbraccio pieno di forza, di rispetto, e me lo ricordo bene perché di solito lui era così algido, non si scomponeva mai, neanche con me. Credo di averlo visto così poche volte”.

 

Il mondo era grande, Furio aveva ventiquattro anni. “In Messico ci si andava con due compagnie aeree, i voli diretti non c’erano. Si faceva scalo a Parigi e poi a New York. Partimmo io e tre amici del mio babbo: Vincenzo Sabatini, che aveva un ristorante a Firenze, l’allenatore Beppino Bigogno, e Ghigo Ignesti che aveva una concessionaria di auto, vendeva le Porsche ai calciatori. Prima di partire il mio babbo mi telefonò: ‘Furio, portami cento cravatte, il basilico e il prezzemolo’. Andai da Raspini, quello dell’abbigliamento, comprai le cravatte e le misi in una valigia. Gli servivano per fare i regali. Quando arrivammo in Messico sotto le scalette dell’aereo c’era una macchina con le bandierine italiane attaccate al cofano e certi tizi coi baffi che suonavano la chitarra. Uno era Gigi Casola, di Busto Arsizio, era stato gregario di Coppi, anni dopo organizzò il record dell’ora di Moser. Aveva sposato la figlia di un generale di Città del Messico, conosceva mio padre e insistette per venirci a prendere. Ci trattò come re. Andammo cinque giorni ad Acapulco, io però volevo stare con la squadra, volevo stare con il mio babbo. Volevo stare dentro quel Mondiale”. E così Furio le giornate le passava con i giocatori, con Riva, con De Sisti, con Boninsegna e Mazzola, con quelli che hanno fatto la storia. “Io, figlio dell’allenatore, e quindi innocuo, passavo il tempo con i calciatori, guardavo gli allenamenti, li sentivo parlare, ‘sto bene’, ‘ho un dolorino qui’, avvertivo gli umori, le difficoltà, le certezze. In attacco doveva giocare Bobo Gori, ma non stava bene e toccò a Boninsegna. C’erano le coppie, all’epoca si usava così. Cera e Niccolai. Niccolai si fece male e giocò Cera, che fece un Mondiale incredibile: una delle fortune del mio babbo. Rivera telefonava a Milano, voleva andare in campo, destabilizzava, chiedeva perché non giocava. Perché si vince, ecco perché. Io al babbo lo dicevo, gliel’ho detto sempre: ‘Ma digli qualcosa, rispondi a Rivera’. E lui: ‘No no, lui sa perché non gioca’. Il più grande di tutti però era Riva. A quel campionato del mondo c’erano due stelle: Pelé e Riva. Taciturno, parlava poco. Qualche mattina il babbo lo lasciava dormire perché a Gigi capitava di passare le notti in bianco. Qualcuno prese il Montezuma, si debilitò molto. Ma il posto era un paradiso, un’oasi, e in più si vinceva e questo faceva tutta la differenza del mondo. Mangiavo con loro. Olimpio, il cuoco della Nazionale, faceva certe bistecche grandi così. E poi riso. Riso, riso, riso. In pratica: veleno per i giocatori. Nei giorni liberi si andava in giro. Io e Bobo Gori un giorno finimmo dentro al museo archeologico. Non ci capivamo niente, ma ci divertimmo tanto. E poi si andava a queste bancarelle, tutti comprarono almeno un sombrero, e mi ricordo i colori del Messico ma anche la povertà di un posto gigantesco, enorme”.

 

“A un pranzo eravamo io, babbo, Rocco e Nicolò Carosio. Pasteggiavano a whisky. Si parlò di tattica, di donne e di vita”

E poi c’era papà. Uccio, come lo chiamavano tutti. “Lui mi diceva: ‘Te Furio parli troppo’. E io: ‘E te troppo poco’. Ma a quel Mondiale lo ricordo tranquillo, non alzava mai la voce. Babbo era un triestino modesto in apparenza ma presuntuoso come un cavallo. Però capiva. Dopo la Germania non disse niente, quella sera lasciò festeggiare la squadra. Me lo ricordo sbucare da un angolo e dire ‘arrivederci a tutti’, un sorriso, e via. Noi si fece un casino. Mamma l’aveva conosciuta alla piscina della Rari Nantes Florentia lo stesso giorno che arrivò a Firenze col treno. Andavano insieme a vedere i giocatori: lei stava in macchina a fare la maglia, lui in tribuna. L’unica partita che vide mamma fu a Prato. Persa. In Messico venne su anche Nereo Rocco, che era l’idolo del mio babbo. Quando Uccio giocava, Rocco gli passava cinque lire, lo aiutava, gli voleva bene. Mi ricordo un pranzo in Messico, eravamo io, babbo, Rocco e Nicolò Carosio. Forse era il giorno prima della finale, non lo so più. Pasteggiavano a whisky annacquato. Si parlava di tattica, di donne e di vita. Ma anche di sport. Babbo era un grande appassionato di tennis, era per Pietrangeli, io per Panatta. E poi di ciclismo, era amicissimo di Alfredo Martini, una volta mi presentò Fausto Coppi, e ovviamente gli piaceva la boxe, Tiberio Mitri e Nino Benvenuti. Il giorno prima del Brasile la Federazione annunciò che bisognava rientrare in Italia subito, sei o sette ore dopo la partita. Così la sera mi ricordo la baraonda per le valigie. Si giocò, si perse. Ma a venti minuti dalla fine si stava ancora pari. Dopo la partita andammo al Camino Real, i taxi quasi scivolavano sulla moquette tanto era sfarzoso. Ci fu la cerimonia e quando vidi Pelé lo abbracciai. ‘Bravo bravo’, gli dissi. Lui mi guardò, ma non mi disse niente. Poi partimmo con il Dc8 fatto arrivare dall’Italia. C’era anche Fanfani. In aereo stavo vicino a Burgnich e Mazzola e la stanchezza era tanta. All’altezza dell’Elba il comandante avvisò che c’era gente a Fiumicino. Ce l’avevano con il babbo per quella staffetta tra Rivera e Mazzola e per aver perso la finale. Adesso la staffetta la fanno tutti, ma il copyright è suo. Dopo l’atterraggio ci vennero a prendere con dei pulmini, ma la gente trovò il modo di venirci dietro. Mi ricordo che c’era Giancarlo Dellacasa, il massaggiatore. Un tifoso nella foga ruppe un vetro del pulmino e Giancarlo gli diede un cazzottone che ancora vedo i tagli sulla mano. Finimmo dentro a un hangar per gli aeroplani in riparazione. Restammo lì due ore”.

 

Fa gesti ampi con le mani, all’ombra della tribuna della Settignanese. Qui ci sono le foto di Uccio, i tavolini di plastica su cui Valcareggi giocava a carte negli ultimi anni. “Aveva l’alzheimer. Quando è cominciata a calare un po’ di nebbia su di lui, sono stato io a fare sempre da scudo. Negli ultimi anni stavamo insieme, in silenzio nella casa di Piazza Fardella. Lui a letto, io in poltrona. Non potrò mai ripagare quello che mi ha dato. Mio padre ha avuto una vita a dieci stelle”. Furio da ragazzo faceva il rappresentante di medicinali, per un po’ ha fatto anche l’assicuratore. Il mestiere del procuratore se l’è inventato dopo. “Mi sono sposato nel ’70, dopo il Mondiale. Alla mia festa vennero Fred Bongusto e altre stelle del varietà, c’era un gossip di alto livello: ero sempre il figlio del ct. Quando è nata mia figlia venne la Rai, ‘Valcareggi nonno’ era il servizio, e lui stava lì con in braccio Benedetta. Sono stato un padre così così, normale. Ma adesso sono un grande nonno. E’ che volevo sempre stare col mio babbo, sempre, mica solo in Messico o alle grandi partite. Sono stato con lui a Piombino, a Prato, a Bergamo. Qui a Firenze. Sempre. Lo andavo a prendere dopo le partite, in macchina, e si tornava insieme. Non abbiamo mai litigato, qualche volta discusso. Ma di sciocchezze, niente di più. Dopo la Nazionale lo chiamò il presidente del Verona: ‘Valcareggi, viene ad allenare qui?’. ‘Basta, basta, sono stanco’, mi disse. No, te ci vai. Alla fine si trovò bene. Papà il calcio lo amava immensamente. E’ uno degli ultimi allenatori che il gruppo lo tirava, correva, sudava. E allenava i portieri. Di tattica si è occupato sempre. All’Europeo del ’68 fece un capolavoro: ne cambiò cinque per la ripetizione della finale contro Jugoslavia. Io c’ero anche lì. Dopo la partita se ne andò via, si chiuse negli spogliatoi perché voleva lasciare la scena ai calciatori. Per anni ho gufato gli altri allenatori: non è così male essere l’unico nella storia ad aver vinto un Europeo, no? Adesso mi sono ammorbidito. Alla partita contro il Brasile ci ha ripensato per tanto tempo, lo so. Può darsi che abbia sbagliato qualcosa. Ma in Messico non abbiamo perso un Mondiale. Abbiamo vinto un argento, io lo posso testimoniare”.

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