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Il ruggito dei Leoni

Enrico Brizzi

Negli anni Settanta il calcio camerunense conquista l’Africa e sbarca nel campionato francese. E molti cominciano a notare un certo Roger Milla

I pionieri della Blaxploitation

(qui trovate la prima puntata del racconto di Enrico Brizzi) Il 1960 è un anno fondamentale della storia africana contemporanea: il Camerun è il capofila di una lunga lista di territori sottoposti alla tutela francese a ottenere l’indipendenza, e per l’occasione viene riunificato alle province occidentali anglofone.

 

La nuova nazione conta 7 milioni di abitanti e si dà un ordinamento federale rappresentato dalle due stelle sulla bandiera che riproduce fieramente i colori panafricani, ma allo stesso tempo viene ammessa l’esistenza di un partito unico, l’Unione Nazionale Camerunense. Presidente della Repubblica è un musulmano dell’etnia settentrionale dei Fulani, Ahmadou Ahidjo, che fonda il proprio potere su tre pilastri: il legame esclusivo con la Francia di De Gaulle, che ottiene il ruolo di primo partner commerciale; la cooptazione della potente etnia Beti nei posti-chiave della gerarchia a danno degli altri popoli e in particolare dei Bemileke, numericamente preponderanti; la repressione feroce della guerriglia di stampo marxista dell’UPC, particolarmente radicata presso le etnie escluse dal potere, in specie tra i clan dell’orgoglioso popolo Bassa. Un dettaglio non secondario se si pensa al ruolo sociale che il football si appresta a rivestire nella società del paese: i Bassa, infatti, sono i migliori atleti del paese, e arriveranno a fornire fino al 70 per cento dell’organico della Nazionale.

 

Il loro animale totemico, il ragno, diventa il blasone della rivolta, che si protrae per anni e viene stroncata nella maniera più cruda: con l’aiuto dei consiglieri militari francesi, le forze speciali del presidente Ahidjo radono al suolo interi villaggi col napalm, e per dare una lezione ai riottosi vengono gettati nelle acque del Wouri in un solo giorno 600 ribelli con una pietra legata al collo.

 

Mentre si consumano queste carneficine, la neonata Fecafoot, strettamente legata al governo, indice un regolare campionato di calcio. A dominare le edizioni degli anni Sessanta è l’Oryx Douala, guidata dalla prima stella del calcio nazionale, Samuel Mbappé Leppé detto “le Marechal”, che regala all’équipe giallonera cinque titoli nazionali e tre coppe, e si consacra definitivamente nel 1965 in occasione della prima Coppa dei Campioni africana: l’Oryx raggiunge la finale contro lo Stade Malien di Bamako, vince 2-1, e Samuel, in quanto capitano, è il primo uomo a sollevare il trofeo al cielo.

 

Il bivio di fronte a cui si trovano i calciatori dell’Africa francofona è chiaro da subito: restare in patria, giocando per squadre dal fortissimo radicamento comunitario e raggiungere enormi livelli di popolarità come accade al “Maresciallo”, o migrare in Francia per migliorare i propri guadagni pur rivestendo un ruolo da comprimari?

 

Prototipo dell’atleta che prende questa seconda strada è Joseph Yegba-Maya, trasferitosi a Marsiglia già nel 1962 per giocare in un Olympique che si barcamena nella serie cadetta. La sua parabola è indicativa per tanti giovani connazionali: all’inizio è giudicato tanto potente quanto maldestro, ma il suo innato senso del gol lo porta ad aiutare la squadra a risalire nella massima serie, quindi a vincere la Coppa di Francia. Appende le scarpe al chiodo a fine decennio, con un pregevole bottino di 112 reti.

 

Ancora più brillante la traiettoria del prolifico maliano Salif Keita, sconfitto dall’Oryx nella prima finale di Coppa dei Campioni: nel 1967 sale in aereo per passare al Saint-Etienne, e con i Verdi mette a segno un filotto da tre titoli nazionali consecutivi, l’ultimo dei quali impreziosito dalla doppietta con la Coppa di Francia. Nel 1970 si tiene l’edizione inaugurale del Pallone d’oro africano, e grazie ai suoi exploit il maliano vince il premio a mani basse, ergendosi a simbolo della voglia di riscatto condivisa dalla gioventù d’un intero continente.

 

L’esilio e le radici

Le storie di successo di Yegba-Maya e Salif Keita finiscono per invogliare all’emigrazione un buon numero di ragazzi, fra i quali spicca il nome di un giovane spilungone che gioca da numero 10 e arriverà a prolungare la sua carriera sino al Mundial spagnolo del 1982: Jean-Pierre Tokoto.

 

Pelle più chiara di diversi toni rispetto alla media e studente in un rispettabile lycée di Douala, Jean-Pierre vive una situazione sociale privilegiata, ma la passione per il calcio e l’entusiasmante esperienza all’Oryx lo spingono verso una carriera da professionista poco gettonata presso le élite: a soli sedici anni Tokoto è titolare nella squadra giallonera che, sotto la guida del “Marechal” Mbappé si è aggiudicata la Coppa dei Campioni, e nello stesso anno diventa il ragazzo più giovane che abbia mai vestito la maglia della Nazionale.

 

Sbarca all’Olympique Marsiglia a vent’anni, quando il compatriota Yegba-Maya è prossimo a chiudere la carriera, ma la norma sul limite di due stranieri per squadra lo condanna al purgatorio dei prestiti nelle serie minori. Nel 1972 rientra a Marsiglia giocando da comprimario una stagione che vale il titolo, e l’anno successivo trova la sua dimensione ai Girondins Bordeaux; si leva lo sfizio di incontrare in amichevole e battere il Santos di Pelé, che all’uscita dal campo si complimenta con lui e profetizza che entro la fine del secolo una nazionale africana solleverà al cielo la Coppa del mondo.

 

A metà decennio Jean-Pierre Tokoto, fresco sposo, passa al giovane e ambizioso Paris Saint-Germain, dove trova una vecchia conoscenza africana, il congolese François M’Pelé. Il club fondato nel 1970 per riportare Parigi in vetta al calcio nazionale – un primato che latita dall’anteguerra – è diretto dallo stilista Daniel Hechter, che disegna personalmente le divise da gioco e ispira l’intera estetica del sodalizio a un ideale di glamour sconosciuto al rustico football francese.

 

Nella Ville Lumière il ragazzo venuto da Douala vive il periodo più gratificante della propria esistenza: la squadra si allena vicino a Versailles, così il ragazzo ne profitta per integrare il training con lunghe passeggiate insieme al coéquipier e amico algerino Mustapha Dahleb nei giardini disegnati da André Le Nôtre per il re Sole; la sera esplora con la moglie café e trattorie di Montmartre, e prima di rientrare si concedono la sosta d’obbligo sulla spianata del Sacré Coeur per ammirare l’oceano di luci di Parigi. I risultati attesi da Hechter non arrivano: il PSG naviga stabilmente a metà classifica, ma Jean-Pierre è un uomo che sa vedere il bicchiere mezzo pieno. Per lui non è da disprezzare la soddisfazione di segnare, sia pure in amichevole, al Barcellona di Cruijff, e ogni volta che sale in aereo per tornare a Douala a vestire la maglia verde della Nazionale sa che sarà accolto come una stella.

 

Risale a quel periodo una foto che lo ritrae in patria baffuto e vestito come una rockstar, la camicia aperta e svolazzante a scoprire una t-shirt dedicata al film Easy rider e gli immancabili pantaloni scampanati, accanto a un giovane compagno di Nazionale che gli porta di buon grado le valigie.

 

Il ragazzo, un centravanti di etnia Bassa con il sorriso segnato da una vistosa spaziatura fra gli incisivi, si è fatto strada al Léopard Douala con il quale ha vinto due titoli; attualmente gioca per i bianconeri del Tonnerre Yaoundé, e di lì a poco s’imporrà come il miglior calciatore africano. Il suo nome è Roger Milla.

 

La generazione d’oro

Mentre Jean-Pierre Tokoto consuma il suo esilio dorato fra Marsiglia, Bordeaux e la sfavillante e multietnica corte parigina di Hechter, il calcio camerunense vive il suo decennio d’oro. Certo, i campi sono scalcagnati e poveri d’erba, e l’invalsa abitudine di seppellirvi spoglie di animali per propiziare gli spiriti non aiuta a mantenerli ben livellati; i dirigenti federali sono spesso corrotti, certi dell’impunità di cui si può godere in un paese che ammette un unico partito, e le competizioni stesse risultano sottoposte all’arbitrio da parte del potere politico.

 

A farne le spese sono le sgradite squadre della zona anglofona, come il PWD, che pure dipende dal ministero dei Lavori pubblici: quando il club ardisce farsi strada sino alla finale della Coppa nazionale, una competizione che formalmente dipende dal presidente della Repubblica in persona, libero di fissarne data e orario, il pullman del team diretto a Yaoundé viene fermato dalla polizia e i giocatori messi agli arresti con l’accusa di essere agitatori al servizio della causa separatista. I poveretti vengono liberati dalle celle solo a poche ore dal fischio d’inizio, ma prima di lasciarli andare la polizia riserva loro la cortesia d’un pasto caldo; purtroppo per i malcapitati giocatori del PWD il cibo è generosamente condito a base di sedativi, col risultato che scendono in campo solo per essere ridicolizzati. Non sono accidenti insoliti nel calcio africano, dove la dimensione tecnica si deve confrontare continuamente tanto con le prepotenze a sfondo politico quanto con le credenze ancestrali, una dimensione che influenza la società nel suo insieme e si riflette in maniera potente nel football.

 

L’intera storia dei tornei continentali è costellata da incidenti diplomatici e comportamenti irrazionali che affondano le proprie radici nella certezza che esista un potere oscuro e sfuggente capace d’influenzare l’andamento dei match; non è qui questione di stabilire se esso esista effettivamente, quanto di accettare che in una cultura dove la maggior parte delle persone nutre una credenza, essa si dimostra capace di produrre spiegazioni date per buone e un ampio ventaglio di conseguenze pratiche. Quando una squadra in trasferta trova la strada che conduce al campo d’allenamento gentilmente messo a disposizione dai padroni di casa disseminato di misteriose polveri luminescenti, i suoi giocatori si dimostrano recalcitranti ad allenarsi; quando una tifoseria si convince che tutte le entrate allo stadio tranne una sono state maledette, fatalmente si accalcherà all’unico ingresso immune dal sortilegio, con tutti i rischi del caso, come è accaduto nel derby di Nairobi fra i Leopards e il Gor Mahia del 2010, dove la calca si è risolta con otto vittime e decine di feriti.

 

La magia è tanto più potente perché può essere evocata ex post come spiegazione di un incidente o giustificazione d’una sconfitta.

 

Nell’ottobre 1998 un incontro della massima serie congolese giocato nella provincia del Kasai è stato funestato dalla caduta d’un fulmine in campo; subito corre voce ai quattro angoli del paese che la folgore avrebbe annientato in un istante l’intero organico della squadra di casa, il Bena Tshadi, impegnato contro gli ospiti del Basanga. L’autorevole Avenir di Kinshasa, nel confermare la notizia, aggiunge che altre 30 persone sono rimaste ustionate in maniera non fatale, e conclude in tono ambiguo che “gli atleti del Basanga sono curiosamente usciti illesi dalla catastrofe”. Un avverbio che la dice lunga su come i suoi lettori possono avere interpretato l’accaduto.

 

Ancora nel 2016, il presidente del club egiziano Zamalek, sconfitto nella doppia finale della massima competizione continentale per club dai Mamelodi Sundowns, ha esplicitamente accusato i Sudafricani di aver fatto ricorso alla magia nera. “Abbiamo avuto 18 occasioni da gol e la palla non è mai entrata”, ha constatato. “Non è normale. Appare chiaro che i nostri avversari hanno fatto ricorso a pratiche proibite”.

 

La confederazione africana, la CAF, ha effettivamente messo al bando un ampio catalogo di rituali che va dalla sepoltura di animali in campo all’aspersione di pali e reti con liquidi di varia natura, e in questo senso il numero uno dello Zamalek può avere ragione nel lamentarsi; manca ancora, tuttavia, un articolo del regolamento che impedisca di usare la magia come scusa per alleggerirsi la coscienza dal peso d’una sconfitta.

 

Se ancora ai giorni nostri s’insinua che il potere della stregoneria possa risultare decisivo, è facile immaginare qual è il clima che regna nel calcio africano degli anni Settanta, l’epoca più vincente del football camerunese a livello di club. Dopo la vittoria dell’Oryx Douala del “Maréchal” Mbappé e del giovane Jean-Pierre Tokoto nell’edizione inaugurale della Coppa Campioni africana, i club del paese tornano alla ribalta nel 1971 vincendo il trofeo grazie ai rossoverdi del Canon Yaoundé. L’anno successivo il Camerun ospita la Coppa d’Africa per nazioni; per quanto il governo prenda la faccenda sul serio, erigendo due stadi nuovi di zecca nella capitale (l’Omnisports) e a Douala (il Réunification), i risultati della Nazionale non sono all’altezza delle aspettative: i “Leoni indomabili” vengono eliminati in semifinale dal Congo dello scatenato François M’Pelé, che si aggiudica il torneo battendo in finale il Mali di Salif Keita. L’unica consolazione per i padroni di casa è la proclamazione di Jean-Pierre Tokoto come miglior giocatore del torneo.

 

Se per la Nazionale i tempi non sono ancora maturi, i club camerunensi guadagnano sempre maggior rilievo.

 

I bianconeri del Tonnerre Yaoundé, il club che ha per emblema un libro aperto, s’impongono a valanga nel 1975 nella prima edizione della Coppa Coppe continentale: Roger Milla, il giovanotto che portava con deferenza le valigie di Tokoto, guida i suoi a una sonante vittoria contro gli ivoriani dello Stella Club, marcando l’unica rete del match d’andata a Abidjan e contribuendo con una doppietta al 4-1 del ritorno davanti alle gradinate dell’Omnisports, che in teoria potrebbe contenere 40.0000 spettatori ma quella sera ne ospita 100.000. La vittoria del trofeo suona come la squilla della riscossa per un movimento calcistico ancora segnato dalla delusione per l’esito della Coppa d’Africa giocata in casa, e a galvanizzare ulteriormente gli animi interviene un importante riconoscimento personale per l’uomo-simbolo del Tonnerre: l’anno successivo Roger Milla diventa il primo giocatore nazionale ad aggiudicarsi il Pallone d’oro africano. Ancora un anno e anche lui lascia il paese per la Francia, dove si sistema dapprima nel modesto Valenciennes, per poi trasferirsi nientemeno che a Montecarlo. Con la squadra del Principato gioca da comprimario ma vince subito la Coppa, e il trasferimento a fine stagione nella meno scintillante Bastia non lo deprime affatto: al primo tentativo con i Corsi, torna a vincere il trofeo.

 

Sul finire del decennio la supremazia dei club camerunensi si trasforma in un’autentica dominazione sul calcio africano: fra il 1978 e il 1980 la Coppa dei Campioni finisce due volte al Canon Yaoundé e una ai biancoverdi dell’Union Douala, squadra espressione della numerosa e derelitta etnia Bemileke.

 

La musica non cambia di molto in Coppa delle Coppe, dove il Canon trionfa nel 1979, un successo che vale al portiere N’Kono il titolo di calciatore africano dell’anno, e l’Union Douala nel 1981. I successi sono opera della “generazione d’oro” del calcio camerunese, la stessa che conquista la qualificazione al Mundial spagnolo al termine d’un torneo estenuante articolato su quattro turni, che si protrae dall’estate ’80 al novembre dell’anno successivo, quando delle ventinove Nazionali in lizza non ne restano che quattro. A staccare i due biglietti per la Spagna saranno le vincenti di Nigeria-Algeria e Marocco-Camerun.
Il 15 novembre 1981, davanti ai 100.000 del colossale stadio Mohamed V di Casablanca, appena riaperto dopo una lunga manutenzione, il Camerun s’impone grazie a un rigore di Milla e un gol su azione di Tokoto.

 

Due settimane più tardi, novembre 1981, nel catino dello stadio Omnisports di Yaoundé, si accalcano 120.000 persone, il triplo della sua capienza teorica; l’occasione è storica, e i “Leoni indomabili” non se la lasciano sfuggire: al gol su rigore di Aoudou, difensore del Canon, replica sempre dagli undici metri il marocchino Mustapha Yagcha, che milita nel campionato svizzero sotto i colori del Servette. A risolvere la situazione è l’idolo locale Roger Milla, che segna il gol del 2-1 facendo esplodere d’entusiasmo la folla sulle gradinate, la città intera, tutta una nazione.

 

Saranno i “Leoni” del Camerun, insieme all’Algeria di Belloumi e Rabah Madjer, a difendere l’onore africano nella massima rassegna planetaria. Mentre per le strade di Yaoundé e Douala si festeggia danzando al ritmo della makossa e accompagnando i banchetti en plein air con bottiglie di odontol, la popolare acquavite casalinga, nei palazzi del potere c’è già qualcuno pronto a sfruttare l’occasione nella maniera più efficace per il proprio tornaconto: dietro le ombre rapaci dei dirigenti della Fecafoot, infatti, si muove il primo ministro Paul Biya, uno scafato politico dell’etnia Beti con un passato da seminarista e una prestigiosa laurea parigina ottenuta a Sciences Po.

Biya non vede l’ora di mandare in pensione il presidente, l’ormai anziano padre della patria Ahmadou Ahidjo, e non manca molto perché le sue trame si concretizzino; sarà proprio lui, il prossimo uomo forte del paese, a trarre il massimo vantaggio in termini di propaganda dai successi della Nazionale.

 

L’ombra del Mundialgate

La partita di Vigo fra Camerun e Italia del 23 giugno 1982 si risolve in uno spettacolo surreale. Nel primo tempo, a dispetto di alcune buone occasioni azzurre, il risultato resta inchiodato sullo 0-0; intorno al quarto d’ora della ripresa è Ciccio Graziani che porta gli Azzurri in vantaggio con un pallonetto sul secondo palo che scavalca N’Kono, vittima di uno scivolone in area piccola. Palla a centrocampo, e il Camerun pareggia: la discesa verso l’area avviene nella sdegnosa indifferenza dei difensori azzurri, e il carneade M’Bida ha buon agio di farsi servire solo di fronte a Zoff per infilarlo a bruciapelo.

  

Dopo l’1-1, più niente. Il pareggio che all’Italia è bastevole per la qualificazione, per qualche motivo sembra accontentare anche i “Leoni indomabili”. Ai tre fischi, i giocatori in maglia verde esultano a braccia levate festeggiando quel pareggio fatale, mentre l’Italia tira un enorme sospiro di sollievo: l’avventura degli Azzurri prosegue, si può mettere da parte la paura, almeno quella nei confronti degli sciamani capaci di indirizzare le attenzioni degli spiriti della foresta. Ora, i veri spauracchi che si ergono all’orizzonte sono le ombre di Maradona e di Zico. Ma i camerunensi, ci si domanda, che cavolo hanno da festeggiare? Nel vedere Roger Milla che si complimenta con Zoff riservandogli lo sguardo adorante d’un ragazzino di fronte al suo idolo, in parecchi ipotizzano, con un certo paternalismo, che i giocatori camerunensi siano appagati all’idea di far ritorno a casa senza essere stati battuti da nessuno. In fondo, cosa può chiedere più di così dal Mundial una squadra africana? Chi si sforza di dare una spiegazione più razionale, intravede netti i profili di una combine: è il caso di Oliviero Beha e Roberto Chiodi, che seguono il torneo rispettivamente per Repubblica e per Epoca.

 



 

I due parlano con un funzionario camerunense ai vertici dei servizi segreti, che ammette di condividere il loro sospetto: mister Jean Vincent e i giocatori avrebbero concordato un pareggio in cambio di quattrocentomila dollari, e quella cifra non può che arrivare dall’Italia. La ricostruzione di Beha e Chiodi delinea una trama che coinvolge il presidente della Federcalcio, l’avvocato Sordillo, un suo assistito dalla fama più che controversa come il boss della camorra Michele Zaza e un ristoratore italiano attivo in Corsica, la stessa isola dove gioca per il Bastia il centravanti del Camerun Roger Milla. 

 

Se i risultati dell’inchiesta fossero arrivati all’indomani della partita, nel clima da linciaggio che circonda gli Azzurri, probabilmente i due giornalisti sarebbero stati creduti. Italia-Camerun appare infatti come la terza stazione d’una via crucis che sembra preludere all’inevitabile e definitivo martirio della banda Bearzot, inserita per il secondo turno in un “gruppo della morte” insieme alle quotatissime Argentina e Brasile. Il lavoro di Beha e Chiodi, invece, richiede inevitabilmente tempo e pazienza; quando sono pronti a pubblicare il loro Mundialgate, sono ormai trascorsi due anni dalla campagna spagnola, che ha visto gli incerti Azzurri del girone iniziale trasfigurarsi negli indomabili araldi della riscossa nazionale. Il 2-1 rifilato alla Biancoceleste di Maradona e l’epico 3-2 sul Brasile, la vittoria in semifinale sulla Polonia e il trionfo finale al Bernabeu sotto gli occhi di Sandro Pertini hanno reso Bearzot, Paolo Rossi e i suoi compagni di squadra degli intoccabili, le mani di Zoff che sollevano la Coppa sono divenute un’icona da francobollo, e nessuno ha più voglia di ascoltare come e perché si sarebbe aggiustata una partita potenzialmente insidiosa contro il derelitto Camerun. Beha e Chiodi vengono trattati come due insopportabili guastafeste: salta il contatto con la Feltrinelli, inizialmente interessata alla pubblicazione del loro libro, che esce in tono minore per Tullio Pironti e viene salutato da una granitica indifferenza. La sinistra minaccia che Sordillo ha rivolto a Beha – “Ho già parlato col tuo direttore. Non lavorerai più” – assume concretezza di lì a pochi mesi: nel 1985 il giornalista fiorentino lascia la Repubblica di Eugenio Scalfari per ripiegare su radio e televisione.

 

(continua, qui trovate la terza puntata del racconto di Enrico Brizzi)

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