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il foglio sportivo

L'avanzata del calcio africano

Enrico Brizzi

Negli anni Ottanta il Camerun di Milla e N’Kono guida la riscossa del Continente Nero. L’apoteosi sarà in Italia, al Mondiale dell’estate 1990

Il calcio del futuro

(qui trovate la seconda puntata del racconto di Enrico Brizzi) Nell’agosto 1982, all’indomani del trionfo azzurro al Bernabeu, si gioca a New York una partita speciale, che appare a milioni di telespettatori disseminati ai quattro angoli del pianeta la più plausibile anticipazione del calcio che verrà.

 

Sul campo in sintetico del Giants Stadium, di fronte a 76.000 spettatori in buona parte d’origine italiana, si affrontano due selezioni dei migliori calciatori del pianeta: Europa-Resto del mondo non è soltanto un lussuoso match benefico i cui ricavati sono destinati all’Unicef, ma anche l’occasione per rivedere in campo i protagonisti del Mundial appena concluso frammisti a icone del soccer che hanno chiuso la carriera indossando la maglia dei Cosmos newyorkesi, a caccia del loro quinto titolo nella NASL.

 

Fra i rappresentanti del Vecchio mondo, guidati in campo dal “Kaiser” Beckenbauer, ci sono Dino Zoff, Tardelli, Antognoni e l’acclamatissimo Paolo Rossi; giocano in maglia biancorossa accanto a Kevin Keegan, Platini, Boniek, al sovietico Oleg Blokhin, all’austriaco Pezzey e a due rappresentanti dell’Olanda, grande assente del Mundial, come Krol e Neeskens, l’uno tesserato per il Napoli e l’altro in piena attività con i Cosmos.

 

Il Resto del Mondo è invece scortato sul terreno da Pelé, al quale i tifosi italo-americani non perdonano le parole poco tenere spese nei confronti degli Azzurri: ben visibile sugli spalti lo striscione che dichiara “Pelé is on drugs - Italy is number 1”. Dietro alla “Perla nera”, arrivano in maglia verde ben quattro connazionali, Zico, Socrates, Junior e Falcao, già protagonisti, o destinati a diventarlo, nel “campionato più bello del mondo”, ma anche Giorgio Chinaglia, fischiato a sua volta come traditore del Bel Paese, il messicano dell’Atletico Madrid Hugo Sanchez e alcuni rappresentanti dei paesi emergenti usciti con onore dal Mundial: l’algerino Belloumi, l’honduregno dalla rigogliosa chioma afro Figueroa, il suo connazionale Arzu e Thomas N’Kono, l’estremo difensore del Camerun, unico rappresentante dell’Africa nera.

 

A chi paresse poca cosa, val bene ricordare che, sino a poco prima, pesava un pregiudizio talmente forte sugli atleti di colore e la loro presunta difficoltà nel trovare la giusta concentrazione che i più giudicavano innaturale la selezione d’un portiere nero per una squadra di alto livello.

 

N’Kono, invece, prossimo a vincere per la seconda volta il titolo di calciatore africano dell’anno, ha conquistato tutti, e in quell’estate è stato corteggiato tanto in Brasile quanto in Europa; ha scelto di accasarsi all’Español di Barcellona, dove protrarrà la sua carriera per un decennio.

 

L’incontro, segnato da un iniziale doppio vantaggio degli extraeuropei, inclina verso la rimonta ed è infine fissato sul 3-2 da un missile esploso da Antognoni, che trafigge il portiere africano.

 

Il grande cerimoniere del galà Steve Ross, patron dei Cosmos e della Warner, gongola: uno spettacolo sì grandioso non potrà che avvicinare il pubblico statunitense allo spettacolo del soccer. Il magnate statunitense, al colmo dell’entusiasmo, si ripropone di rimuovere il turf per dotare a proprie spese lo stadio di un autentico campo in erba, di inserire nuove regole volte a rendere più competitivo il campionato nordamericano e di aumentare ulteriormente gli ingaggi di giocatori stranieri. Il magnate statunitense profetizza che il mondo del calcio sarà sempre più integrato, con un ruolo importante riservato alle scuole calcistiche estranee al dualismo tradizionale fra Europa e Sud America; inutile dire che, dal suo punto di vista, New York è il luogo ideale per ospitare la crema dei calciatori di tutto il pianeta.

 

Un mese più tardi, i Cosmos colgono il quinto successo in campionato, ma la profezia del suo boss si rivela esatta solo a metà: la NASL, infatti, imbocca un tunnel senza uscita che inchioda il pubblico medio intorno alle 10.000 unità, finisce per patire la concorrenza spuria del calcio indoor e nel giro di tre stagioni deve chiudere i battenti. Quanto al resto, la previsione di Ross si rivela azzeccata soprattutto per quanto riguarda l’Africa: nel prosieguo degli anni Ottanta, infatti, il movimento calcistico del Continente nero cresce in maniera impressionante, e a capeggiarne l’avanzata sono proprio i “Leoni indomabili”.

 

Anni Ottanta

Nell’autunno del fatidico 1982 giunge al termine la parabola politica di Ahmadou Ahidjo, il padre della patria la cui effigie figura sulla banconota da 100 franchi e su un gran numero di francobolli, compresi i valori che celebrano il suo pellegrinaggio alla Mecca e la visita in Vaticano.

 

A scalzarlo dal potere dopo ben 22 anni è il suo pupillo Paul Biya, che motiva la successione con i presunti problemi di salute del presidente; Ahidjo è più che recalcitrante all’idea di lasciare le redini, e quando capisce che i favori della Francia vanno al nuovo leader si presenta furibondo a Parigi. La trasferta è fatale: dall’Eliseo non arriva alcuna soddisfazione, e Biya ha buon agio nell’impedirgli il rientro nel paese.

 

Ahidjo, sperimentata l’ostilità francese, si ritrova condannato all’esilio prima in Spagna e poi in Senegal; gioca il tutto per tutto tentando una prova di forza, ma il sollevamento dei suoi partigiani a Yaoundé viene represso senza troppa fatica dalla Guardia presidenziale, e il mancato golpe si traduce in una condanna a morte in contumacia per alto tradimento.

 

Ormai nessuno può contrastare il potere assoluto di Paul Biya, che governa all’insegna del divide et impera: da una parte esaspera antiche rivalità tribali per indebolire i suoi oppositori, dall’altra si pone come unico garante dell’unità dello Stato, fra i cui simboli sussume la nazionale di calcio.

 

Se in tutta l’Africa nera gli uomini forti hanno interesse a sfruttare gli entusiasmi suscitati dal football, Biya ha per le mani uno strumento unico, ché il prestigio dei suoi “Leoni indomabili” è in quegli anni incomparabile rispetto alle selezioni dei paesi vicini.

 

Nessuno ha a disposizione figure carismatiche come quelle di Jean-Pierre Tokoto, che appende le scarpette al chiodo dopo un’ultima redditizia parentesi in NASL ai Jacksonville Tea Men, come Thomas N’Kono, capace di dare spettacolo nella Liga nonostante l’Español non sia esattamente una squadra di vertice, o come Roger Milla, che lascia la Corsica per accasarsi dapprima al Siant-Etienne e poi a Montpellier, dove incrocia uno dei più ammirati fantasisti della nuova generazione, il coroegrafico colombiano Carlos Valderrama.

 

La diaspora dei giocatori camerunensi, che sulle loro orme lasciano sempre più spesso il campionato patrio per cercare fortuna all’estero, produce un doppio effetto: da una parte i club di Yaoundé e Douala spariscono dai palmarès delle coppe continentali, dall’altro i giocatori di vertice mettono l’esperienza fatta in Europa al servizio d’una Nazionale via via più forte.
È esattamente l’obiettivo che si ripropone Paul Biya per consolidare il proprio potere, ma neppure lui può presagire l’impressionante ruolino di marcia del Camerun nella Coppa d’Africa per nazioni: i “Leoni indomabili” si laureano campioni nel 1984 battendo i rivali di sempre della Nigeria, cedono solo ai rigori di fronte all’Egitto nella finale dell’edizione successiva, e nell’88 tornano a trionfare sconfiggendo nuovamente i “Super Eagles” nigeriani.

 

È quanto si può immaginare di più vicino in campo sportivo all’idea del monopolio, tanto più che Roger Milla è incoronato sia nel torneo 1986 che due anni più tardi capocannoniere della manifestazione.

 

L’ennesima vittoria fa dimenticare l’unica pietra d’inciampo del decennio, rappresentata dalla mancata qualificazione ai Mondiali messicani del 1986, e induce la Federazione a dedicare una grandiosa uscita di scena al suo giocatore-simbolo: Roger Milla viene celebrato con un grandioso jubilé itinerante fra Douala e Yaoundé, che si conclude con una partita fra una selezione di stelle africane ed europee e i “Leoni indomabili”: Milla gioca il primo tempo fra gli ospiti e il secondo con la selezione nazionale, quindi si congeda dal proprio pubblico per andare a chiudere la carriera sull’appartata e lussureggiante isola di Réunion, dove indosserà la casacca bianca della Saint-Pierroise.

 

Che abbia effettivamente 36 anni come assicurano i documenti, o qualcuno in più com’è probabile, Roger pensa di essere al tramonto, invece il placido soggiorno sulle rive dell’Oceano indiano è il prologo al capitolo più glorioso della sua vita calcistica.
A richiamarlo in scena è un uomo al quale non si può dire di no, il presidente Paul Biya, più sicuro che mai di mantenersi in sella a lungo. Ahmadou Ahidjo, infatti, è appena morto in esilio, e il suo successore non gli consente di rientrare sul territorio nazionale neppure sotto forma di cadavere: il padre della patria deve ricevere gli onori funebri a Dakar e qui viene tumulato nel cimitero islamico.

 

L’occasione, d’altronde, è di quelle che meriterebbero in ogni caso un ripensamento: il Camerun , dopo aver dominato il proprio girone di qualificazione, nel novembre ’89 sconfigge nella doppia finale dei playoff la Tunisia e conquista nuovamente il diritto di giocare i Mondiali.

 

Il presidente è categorico: il Camerun non può fare a meno di Roger Milla.

 

Il 9 dicembre va in onda il sorteggio dei gruppi di Italia ’90 presentato in mondovisione da Pippo Baudo e Sophia Loren, con Luciano Pavarotti ospite d’onore.

 

Il Camerun finisce in un gruppo scomodissimo con l’Argentina campione del mondo e due Nazionali determinate a dimostrare il proprio valore per motivi che esulano dal campo meramente sportivo: l’Unione Sovietica a trazione ucraina del Colonnello Lobanovsky, campionessa olimpica e medaglia d’argento agli ultimi Europei, e l’insidiosa Romania, che gioca un calcio vivace dove le geometrie del blocco Steaua si arricchiscono d’imprevedibili fantasie grazie a un solista d’eccezione come Gheorghe Hagi, in procinto di passare al Real Madrid.

 

L’URSS è alla ricerca dell’ultimo acuto prima della disintegrazione politica, un acuto che potrebbe valere il rilancio per “lo Zar di Lugansk” Sasha Zavarov, frettolosamente ceduto ala Juventus e vittima di una drammatica involuzione, così come un ingaggio di lusso per l’elegante Oleg Protasov, ancora confinato alla Dinamo Kiev, al pari dei più giovani elementi della squadra, trattenuti a forza in una patria che presto non esisterà più; la Romania, invece, si è appena lasciata alle spalle la drammatica stagione che ha portato alla rivoluzione e all’esecuzione di Ceausescu, ed è decisa a imporsi confermando una crescita che ha portato lo Steaua sul tetto d’Europa e non sembra risentire del cambiamento politico.

 

Le motivazioni, insomma, non mancano a nessuna delle compagne di girone. Quanto al Camerun, la sua missione è fissata dal presidente in persona: fare meglio rispetto al 1982, passare il turno e dimostrare al mondo che i “Leoni indomabili” non si accontentano di partecipare.

 

E così, mentre risuona il “do di petto” di Pavarotti e garriscono al vento le bandiere delle nazioni partecipanti, d’una sola cosa si può andar certi: in Italia se ne vedranno delle belle.

 

Italia ’90

La cerimonia d’apertura di Italia ’90 è di per sé uno spettacolo senza pari: davanti ai 74.000 del rinnovato stadio di San Siro, il Bel Paese presenta al mondo le proprie eccellenze. Nel corso dello show, ordito da mesi sotto l’egida del comitato organizzatore guidato da Luca di Montezemolo, sfilano modelli vestiti da Ferré, Missoni e Valentino, e al buon gusto nei costumi si somma quello nelle coreografie e nella musica. La colonna sonora del pomeriggio abbina il pop sintetico di Giorgio Moroder ai ritornelli della coppia Nannini-Battiato, mai così nazionalpopolari, mansueti e amati; nel paese di Verdi e Rossini non può mancare l’omaggio alla classica, garantito dal collegamento con l’orchestra diretta dal maestro Riccardo Muti.
Tale è la fiera ebbrezza d’essere italiani, che quasi ci si scorda della partita in occasione della quale s’è tirato su il gran circo, il match d’apertura fra i campioni del mondo dell’Argentina e una nostra vecchia conoscenza africana, quel Camerun che incontrammo fra mille batticuori nel 1982 e che si ripresenta a otto anni di distanza con gli stessi assi d’allora, il portiere Thomas N’Kono e l’attempato bomber Roger Milla, questa volta affiancati da una composita truppa di comprimari del campionato francese e giovanotti che non vedono l’ora di dismettere le maglie di Canon e Tonnerre, le due maggiori squadre di Yaoundé, o della Dinamo Douala. Il nuovo Camerun è guidato da uno sconosciuto mister sovietico dal cognome difficile da pronunciare e il curriculum ridottissimo: Valery Nepomnjasciy, già calciatore nell’oscuro Spartak Samarcanda e in tempi più recenti allenatore nella Repubblica Socialista Sovietica del Turkmenistan. La sua qualifica di tecnico federale fa supporre che sia stato indirizzato in Africa grazie ai buoni rapporti diplomatici che intercorrono fra Yaoundé e Mosca, ma di certo non ha fatto granché per ambientarsi: si ostina a non parlare una parola di francese, limitandosi a impartire alla truppa ordini che vengono tradotti diligentemente dal suo secondo, Jean Manga Onguene.

 

Ad aggiungere perplessità circa la gestione tecnica dei “Leoni indomabili” è la presenza d’un omone ben pasciuto, che a occhio e croce stazza sui 120 chili, ed è stato aggregato alla spedizione con la qualifica ufficiale di dietologo.

 

Ancora una volta, insomma, la squadra fatica a farsi prendere sul serio: le sempiterne voci circa i rituali di sciamani e marabutti ingaggiati dalla Fecafoot risuonano persino sulle democraticissime pagine dell’Unità, accompagnate da indiscrezioni circa uno spogliatoio spaccato in due clan, la “legione straniera” migrata in Francia e i “patrioti” impegnati nel campionato locale. Si parla poi di gelosie dovute alla ripartizione di eventuali premi, di dirigenti accompagnatori incaricati di controllare i discorsi dei giocatori, e di almeno un litigio furibondo fra il mister sovietico e il portiere Bell, che era sino all’ultimo in ballottaggio con N’Kono e con la sua insubordinazione ha risolto ogni dubbio al tecnico, lieto di relegarlo in panchina. La previsione di Gianni Mura sul match non lascia spazio a troppe speranze: l’unica sorpresa possibile, scrive, è una vittoria per goleada della cinica Argentina, del cui successo sul prato di San Siro non dubitano né lui né i colleghi delle altre testate.
Se c’è qualcuno che può temere il colpo gobbo del Camerun è proprio l’Argentina, che ha già sperimentato sulla propria pelle la maledizione del match d’esordio che tocca ai campioni del mondo: al Mundial spagnolo l’Albiceleste ha aperto i giochi contro il Belgio uscendone inaspettatamente con le ossa rotte. Ma il Belgio, vivaddio, è una Nazionale dalla storia dignitosa; quando si schiera un Diego Armando Maradona allo zenith della carriera, mica si può perdere contro una banda di scappati di casa che si portano dietro gli stregoni e i dietologi obesi…

 

Neppure l’update della tenuta di gara, nuovamente firmata Adidas dopo la stilosa parentesi Le Coq Sportif, fa apparire la squadra degna di presentarsi all’appuntamento con l’avvenire: la traslucida maglia verde caricata da due bande bianche sulle maniche e il collo a V candido, i soliti calzoncini rossi e i calzettoni gialli sono un bel vedere, ma si tratta pur sempre d’una combinazione di capi da catalogo, niente a che vedere con le casacche che il colosso germanico realizza ad hoc per le Nazionali più quotate.

 

A tifare per i “Leoni” ci sono gli ex bambini del 1982, che hanno conosciuto quel Camerun tramite l’album Panini e ora, da bravi ginnasiali internazionalisti che hanno letto l’Autobiografia di Malcolm X, ascoltano le cassette di Johnny Clegg & Savuka e portano scritto a uniposca sul Jolly Invicta “Free Nelson Mandela”, anche se Mandela è ormai libero da qualche mese, non possono che assecondare il proprio afflato di idealismo tifando per gli ultimi della Terra.

 

L’assegnazione della gara a Vautrot, arbitro diligentissimo nell’interpretare i voleri della FIFA, sembra la garanzia migliore sul fatto che per l’Argentina non ci saranno sorprese, ma al dunque non bastano né lo smisurato talento del Pibe de oro, imbrigliato dal massiccio capitano camerunense Tataw, né il compiacente fischietto del francese.

 

Nel primo tempo, l’Argentina detta senza costrutto i tempi del gioco e rischia in contropiede: arrivano vicini al gol prima Omam-Biyik e poi l’effervescente Cyril Makanaky, la testa carica di dread e la progressione irresistibile. Le loro non sono occasioni fallite, ma presagi del miracolo sportivo che sta per compiersi in mondovisione.

 

Nella ripresa, il mister argentino Bilardo è deciso a tirare il collo al match e butta in campo Caniggia, che all’ora di gioco viene abbattuto da tergo da André Kana-Biyik. Per Vautrot ci sono gli estremi del rosso. Al Camerun toccherà giocare mezz’ora in dieci, ma gli bastano una manciata di minuti per produrre il prodigio: punizione dalla sinistra, Makanaky scodella un cross altissimo e François Omam-Biyik, 24 anni e un’oscura carriera nella seconda serie francese con il Laval, si eleva verso l’empireo del mito incornando il pallone Etrusco Unico a una quota vertiginosa: i centrali argentini, fotografati nel loro sbigottimento, si trovano i suoi scarpini all’altezza delle spalle, e non possono fare altro che seguire la parabola del cuoio che scavalca Pumpido e gonfia la rete.

 

San Siro esplode d’incredulo entusiasmo: ecco un bel castigo per quel tracotante, detestato, piangina del Maradona!
La stizza degli argentini si traduce nella ricerca furiosa del pareggio, e il misconosciuto Nepomnjasciy replica all’offensiva con una prova di carattere: richiama in panchina Makanaky e butta nella mischia il centravanti puro Roger Milla. L’Argentina insiste con Caniggia, protagonista di una discesa inebriante, di quelle che lo faranno passare alla storia come “il figlio del vento”: il biondo atalantino parte in accelerazione palla al piede, dribbla un avversario, poi un secondo, ma l’impatto con l’erculeo centrale Massing lo manda lungo disteso sull’erba. Vautrot non ha dubbi ed estrae un altro cartellino rosso; il Camerun resta in nove ma non cede, anzi va alla ricerca del raddoppio fin nei minuti dei recupero.

 

Finisce 1-0 con una meritata ovazione per i “Leoni indomabili” e il muso lungo di Maradona: non sarà l’unico, nel corso delle “notti magiche”, a restare con un palmo di naso di fronte alle prodezze del Camerun.

 

(leggi la quarta puntata del racconto di Enrico Brizzi)

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