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il foglio sportivo

Il calcio è magico, e non per modo di dire

Enrico Brizzi

Spiriti, animali totemici e gol. L’epica del Camerun di Milla e le forze misteriose che muovono il pallone

I benpensanti europei inorridiscono nel sentir etichettare le squadre africane come collettivi dominati dalla superstizione, e bollano tali affermazioni come espressioni razziste degne dell’Hergé di Tin Tin in Congo; la verità è molto più complicata e, come spesso accade, meno rassicurante. La magia, che la si voglia chiamare juju, vudù o stregoneria, ha ampia cittadinanza nel football del Continente nero e, a ben vedere, i riflessi d’una devozione che sconfina nell’irrazionalità sono ben visibili anche nel nostro. Rituali e cabale dei calciatori – e dei tifosi – europei sono abitualmente taciuti, ma restano sotto gli occhi di tutti, così come le cosiddette “maledizioni” che tengono determinate squadre lontane dalla vittoria. Le più celebri, per restare al calcio italiano, sono quelle che avrebbero condannato il Milan a un digiuno di successi che si è prolungato dal giorno della scissione interista nel 1908 sino all’alba degli anni Cinquanta, e quella tuttora in vigore, per così dire, che ha sempre impedito al Genoa, nove volte campione d’Italia negli anni pionieristici, di cucirsi sul cuore lo scudetto: l’introduzione dell’emblema tricolore, infatti, coincide con la controversa coda del torneo del ’25, deciso da una serie di cinque finali in cui il Grifone ha alfine ceduto al Bologna, mantenendosi da allora ben lontano dall’ipotesi di vincere il decimo titolo.

 

Credenze del genere sono diffusissime in tutte le tradizioni calcistiche europee, così com’è diffuso il ricorso a rituali individuali e di spogliatoio che si sono protratti nell’ombra sino ai giorni nostri.
 Se un bomber come Beppe Signori, tre volte capocannoniere della Serie A ai tempi dei telefoni cellulari e dei modem per connettersi alla rete, ha giocato per tutta la carriera portando sotto le casacche di Foggia, Lazio e Bologna una maglia della salute benedetta da Padre Pio, c’è ben poco da stupirsi nel considerare che in paesi dove è vivo il culto degli antenati e degli spiriti della natura le squadre facciano ricorso al sapere degli sciamani per “chiudere” la propria porta agli avversari, confondere i rivali grazie all’apparizione di animali totemici in campo, o “imbottigliarli” pronunciandone i nomi dentro contenitori ricolmi di erbe magiche che poi vengono sigillati e sepolti nei termitai. 

 

L’aspetto più affascinante della questione sta semmai nel capire perché un tema tanto rilevante del calcio sia stato a lungo ritenuto indegno di rilievo e indagini. Va da sé che la questione è imbarazzante in qualsiasi società che sostenga, più a meno a buon diritto, di ispirarsi a principi razionali, e tanto più in un calcio scientifico come quello europeo, che si ammanta di statistiche sul possesso di palla e la percentuale di passaggi riusciti: in un contesto che si sforza di essere asettico, parlare del perché una squadra abbia scelto di giocare con un certo paio di calzettoni, o degli imbizzarrimenti d’un nuovo acquisto che pretende il suo numero di maglia fortunato, appare fuori luogo come un sonoro peto durante un pranzo di gala. 

 

Non dev’essere un caso, allora, che i primi a essersi mossi in questa direzione siano stati gli africanisti, sociologi e antropologi che, a partire dall’alba del nuovo Millennio, hanno prodotto una profusione di titoli nel solco dei cultural studies tesi a esaminare il “football magico” del Continente nero. Fra le opere seminali di questo settore di ricerca, a oggi non ancora tradotte nelle nostra lingua ma reperibili in rete in inglese, ci sono Culture of magic and sorcery in African football del kenyano Wycliffe Njororai, professore all’Università del Texas, e le ricerche di Arnold Pannenborg, docente al Centro di studi africani dell’Università di Leida, autore degli illuminanti Football in Africa e How to win a football match in Cameroon, un testo organizzato in capitoli che corrispondono ai giorni della settimana, ciascuno consacrato a un aspetto della vita collettiva dei club calcistici, tasselli fondamentali dell’identità nazionale di un paese dove le appartenenze etniche e le credenze tradizionali sono all’ordine del giorno non meno delle legittime domande sul potere politico, esercitato da un presidente in sella ininterrottamente dal 1982. È lo stesso anno in cui l’Italia si è accorta dell’esistenza del Camerun, e per la prima volta la stampa del Bel paese ha ribaltato sul calcio africano la nostra cattiva coscienza in fatto di cerimonie e rituali.

 

23 giugno 1982 

Alle 5 del pomeriggio di mercoledì 23 giugno 1982, l’Italia intera si ferma per radunarsi di fronte alle televisioni a colori installate nei bar. La Nazionale allenata da Enzo Bearzot, reduce da due faticosi pareggi contro Polonia e Perù, è al centro delle polemiche per la sua presunta inadeguatezza e si trova a un bivio fatale: le chances di proseguire la corsa nel Mundial spagnolo passano dai 90 minuti in programma sul terreno del Bailados di Vigo, che vedono gli Azzurri contrapposti alla cenerentola del gruppo, il Camerun. La Nazionale dei “Leoni indomabili”, al suo esordio nella massima rassegna, è la seconda selezione di sempre dell’Africa nera a entrare nel novero delle finaliste, e la tragicomica esperienza dello Zaire ai Mondiali tedeschi del ’74 ha indotto i più a prenderla sottogamba. Lo scetticismo di stampo post-coloniale, che vuole i camerunensi confinati al ruolo di comparse tanto simpatiche quanto ingenue, ha assunto tinte che oggi giudicheremmo apertamente razziste. Il vero deus ex machina dietro la squadra, infatti, non sarebbe l’allenatore francese Jean Vincent, ex nazionale transalpino reduce da un lustro di stagioni eccellenti alla guida del Nantes, bensì lo stregone senza nome che ha accompagnato l’undici africano nel laborioso percorso verso la qualificazione, ottenuta sconfiggendo nel match decisivo il Marocco. In occasione dell’esordio mundial contro il Perù, la stampa ha scritto senza mezzi termini che tanto l’uomo-medicina ingaggiato dalla Federazione camerunense quanto il suo omologo sudamericano, presumibilmente esperto in antiche cerimonie incaiche, “stanno combattendo una battaglia a colpi di spilloni e filtri magici contro il malocchio e i rispettivi nemici”.

 

La verità è che del calcio africano, nell’Italia del 1982, non si sa quasi niente; a ben vedere si conosce pochissimo anche del Continente nero nel suo insieme, figurarsi del mosaico di etnie e tradizioni del Camerun. I più preparati fra i compatrioti che affollano le sale dei bar, in quell’appiccicoso pomeriggio di giugno, sono probabilmente i bambini delle elementari all’inizio della loro lunga vacanza, che si presentano alla partita armati dell’album Panini “España 82” con lo stesso incrollabile affidamento che un azzimato supporter britannico ripone nel suo match day program. L’album, inaugurato da poche settimane e forzatamente incompleto d’effigi autoadesive, è il massimo strumento di conoscenza per i giovanissimi: il Camerun vi figura relegato nel novero delle squadre che hanno diritto a una sola pagina invece delle due che spettano alla maggior parte delle Nazionali. Le figurine mostrano i ritratti dei suoi giocatori appaiati, una diminutio grafica e morale, specchio di quella che tocca sugli album del Campionato ai giocatori della Serie B. Quella condanna, comune alle selezioni meno quotate come il Kuwait, l’El Salvador o la Nuova Zelanda, ha acceso immediatamente l’innato senso di giustizia dei giovanissimi e si è tradotta in curiosità: che vita vivono quei giocatori dalla pelle d’ebano e la brillante maglia verde marchiata dalle tre strisce Adidas sulle spalle? Abitano in capanne, case simili a quelle italiane, ricoveri di lamiera nei labirinti delle bidonville? Hanno una o più mogli? Che aspetto possono avere gli stadi in cui si esibiscono con i club di appartenenza, squadre dai nomi fiabeschi come “cannone” e “tuono”? E perché l’onnisciente redazione dell’album non è stata in grado d’inserire data e luogo di nascita di parecchi di loro, sostituendo quei dati con un’ambigua fila di punti di sospensione? 
All’ideologia degli adulti, che ancora in quel 1982 chiamano gli africani “negroni” o “moretti” senza alcun senso di colpa, e trovano naturale giudicarli atleticamente dotati ma tatticamente sprovveduti sino all’autolesionismo, i bambini sapienti, autodidatti grazie all’album Panini, contrappongono una simpatia istintiva per il Camerun. Anche in questo senso, i nomi pittoreschi dei suoi giocatori di spicco, il portiere in calzamaglia Thoms N’Kono e il centravanti Roger Milla, si ritagliano un posto d’onore nella koiné delle barzellette infantili. “Dal gelataio: ‘Quanto costa N’Kono?’. Milla lire”, è uno dei grandi successi di quell’inizio estate.

 

Purtroppo s’ignorava – l’album non ne faceva menzione – che entrambi avevano vinto il titolo di calciatore africano dell’anno; non era dato sapere che Milla proveniva dalle periferie urbane, apparteneva al pugnace clan Bassa, era figlio d’un ferroviere e aveva dieci fratelli, e che dopo l’emigrazione in Francia aveva vinto una Coppa nazionale con il Monaco e una seconda con i “Turchini” del Bastia; men che meno si poteva immaginare che N’Kono era cresciuto in un villaggio del dipartimento di Sanaga, un luogo talmente fuori mano che da bambino il padre e il fratello, entrambi calciatori dilettanti, per godere della sua presenza ai margini del terreno di gioco dovevano trasportarlo in spalla per ore.

  

Il 23 giugno, però, il Camerun arriva all’incontro con gli Azzurri trasfigurato nell’immaginario collettivo: i due pareggi a reti inviolate contro Perù e Polonia hanno reso anacronistica la caricatura di una squadra di sempliciotti che penserebbe solo a correre e attaccare senza riguardo per la fase difensiva, anzi lo si è visto schierato da monsieur Vincent secondo un prudentissimo modulo ribattezzato 1-9-1. Il rischio concreto che l’Italia possa terminare la sua corsa sul terreno di Vigo è a ben vedere limitato; agli Azzurri basta un pareggio per passare il turno, e il Camerun non ha ancora segnato una singola rete, ma la paura fa novanta, ingigantisce i limiti dimostrati dalla selezione di Bearzot e rinfocola il timore che lo stregone al seguito dei “Leoni indomabili” possa azzeccare il sortilegio giusto.

 

Quel pomeriggio i bambini, affezionati per natura alla sfera magico-mistica, avvertono che anche i grandi sono contagiati dal timore e dalla superstizione: quale catastrofe si produrrebbe se l’uomo-medicina camerunense riuscisse ad accecare temporaneamente l’attempato Zoff, ritenuto già di suo poco affidabile sui tiri da fuori, a lasciare imbambolato a centrocampo un Tardelli sin lì più bellicoso che efficace, o a prolungare l’indisponente sterilità di Paolo Rossi?

 

Gli Azzurri si presentano in campo indossando la maglia bianca di cortesia con i consueti numeri effetto 3D sul dorso, gli africani con un vivace completo marchiato Le Coq Sportif, assai più raffinato di quello che lasciavano intravedere sull’album: maglia d’un verde deciso con bordomanica e colletto ad ali giallo, calzoncini rossi, calzettoni gialli ravvivati da una rigatura rossoverde. Per l’Italia, la sfida dello stile è già persa prima ancora che risuonino gli inni nazionali. Ma la domanda impronunciabile che fomenta le ansie e allunga l’ombra della paura è molto più inquietante rispetto alle considerazioni estetiche: sono più forti le benedizioni del nostro Dio, o gli arcani spiriti che infestano da millenni la foresta tropicale?

 

Caimani, leopardi e cannoni

Il nome “Camerun” deriva dagli esploratori iberici, che navigando sottocosta nella porzione più profonda del Golfo di Guinea, gettano l’ancora nell’estuario del fiume Wouri e lo trovano straordinariamente ricco di gamberi; i pur graditissimi “camarones” appaiono poca cosa rispetto alle ricchezze di cui l’entroterra di dimostra prodigo. 
È qualcosa di cui si sono già accorte molte etnie africane, che hanno concluso le migrazioni ancestrali in questa zona attirate dalla fertilità del territorio; il loro arrivo ha indotto i più antichi abitanti autoctoni, i Pigmei, a ritirarsi verso le impenetrabili foreste dell’interno, determinando il sorgere di un gran numero di regni tribali.

 

Dopo spagnoli e portoghesi arrivano altri europei, interessati tanto a installare piantagioni quanto alla tratta degli schiavi; sul finire dell’800 si impone come potenza coloniale quella del Reich tedesco, con Bismarck in persona a stabilire che nel “Kamerun” devono prevalere le istanze dei mercanti rispetto a quelle dei soldati.
 Il punto di partenza della colonizzazione germanica è il tradizionale scalo marittimo delle spedizioni dove il Wouri si getta nell’Atlantico; viene costruito un porto moderno, intorno alla quale prospera la città di Douala, così chiamata dal nome dell’etnia prevalente in zona, che diviene la capitale economica dell’intero territorio.
 Spingendosi verso l’interno, i tedeschi risalgono fino a una promettente radura intorno ai 700 metri di quota, posta al limitare della foresta più fitta nel territorio tribale dei Beti; fortificano l’area e battezzano l’avamposto Yaoundé. Nota ai locali come “Città delle sette colline”, ha come pezzo forte del proprio arsenale un grosso cannone; benché sia impiegato perlopiù per sparare a salve, i suoi boati impressionano grandemente gli indigeni, che finiscono per attribuirgli un valore soprannaturale; nessuno ancora può sapere che il pezzo d’artiglieria darà il nome alla principale squadra di calcio cittadina.

 

Sconfitto nella Grande guerra, il Kaiser perde il trono e la Germania viene spogliata delle sue colonie. Il Camerun tedesco viene diviso dalla Società delle nazioni in due zone: il lembo occidentale, adiacente alla Nigeria, è affidato alla Gran Bretagna, mentre il resto del paese, incastonato fra colonie francesi, va alla République transalpina.
 Sono proprio i cugini d’Oltralpe a portare i primi palloni da calcio a Douala e Yaoundé; inizialmente il gioco è riservato alle élite europee, ma la passione per il football è contagiosa, e negli anni Trenta sorgono le prime squadre in seno alle comunità locali. I club hanno una fortissima identità etnica e di radicamento territoriale: ogni quartiere delle due città è infatti abitato in prevalenza da una determinata etnia, e si configura come lo specchio periurbano dell’area rurale d’origine, di cui ha ereditato lingua, norme e tradizioni. Fra queste, naturalmente, le credenze animistiche che i missionari cattolici si sforzano di estirpare, così come fanno i loro omologhi anglicani e protestanti nell’area britannica, col risultato che ogni clan formalmente cristianizzato dà vita a particolari forme di sincretismo. Al momento di battezzare le proprie squadre di calcio, dunque, le diverse comunità trovano ovvio fare riferimento ad animali totemici ed entità adorate nel rispettivo gruppo. È così che a Douala il clan degli Akwa, legato agli spiriti del fiume Wouri, riceve indicazioni dal proprio sciamano affinché i giocatori vi s’immergano prima di ogni partita e consacrino la squadra alla bestia più sacra che nuota nella sua corrente. Nasce così il Caiman Douala, noto anche col nome tribale di “bana ba Ngando”, “i figli del caimano”; un sottogruppo rivale, che attribuisce poteri sacri all’orice, un tipo d’antilope, battezza invece la propria squadra Oryx Douala, e un altro ancora Léopard.
 Analoghi ragionamenti vengono posti in essere a Yaoundé, capoluogo amministrativo del territorio e futura capitale del Camerun indipendente: i Beti, ormai divenuti l’etnia dominante del paese, hanno caro il tuono, e intorno al 1930 il primo clan locale a dotarsi d’una squadra s’arrabatta su come evocarlo senza nominarlo direttamente per non perderne il favore; lo sciamano, uomo anziano e saggio, suggerisce di battezzare la squadra come quel terrificante pezzo d’artiglieria che i tedeschi avevano installato in città. Come si chiamava, già? “Canon”, gli suggeriscono i suoi adepti, ormai votati alla francofonia. Bene, sarà quello il nome ufficiale della squadra, ma per rafforzarne il potere andrà accompagnato a mo’ di divisa dall’onomatopea “Kpa Kum”, il verso che quella bestia di ferro sapeva produrre facendo tremare ogni cosa all’intorno. Nasce così il Canon Yaoundé, che adotta per la sua divisa i colori sacri verde e rosso ed è destinato a diventare la squadra più blasonata del paese; da una sua scissione, nel 1934, sorge invece il club che ne diverrà il più acerrimo rivale, i bianconeri del Tonnerre, che non solo ardiscono nominare apertamente il tuono, ma lo accompagnano con un termine in lingua ewondo che evoca i valori del progresso e della cultura, “kalara”, ovvero "libro"; e un volume squadernato diventa l’emblema del sodalizio. Le prime squadre camerunensi si limitano a tornei locali ed estemporanee sfide fra le selezioni metropolitane delle due città maggiori; il campionato è di là da venire, in compenso nel 1941 le autorità francesi patrocinano la nascita della coppa nazionale, che il Caiman si aggiudica per tre annate consecutive. A riprova del sincretismo imperante, le sue vittorie non sono attribuite unicamente ai rituali nelle acque del Wouri, ma anche alla campana della cattedrale dei santi Pietro e Paolo, che si trova dirimpetto lo stadio: i suoi rintocchi alle 6 del pomeriggio provocano un entusiasmo forsennato sugli spalti, che si traduce in un gioco forsennato e caterve di gol. Come buona parte delle colonie e dei protettorati d’Africa, anche il Camerun fornisce uomini e risorse alla potenza di riferimento nel corso della Seconda guerra mondiale, ma il tributo di sangue non produce un immediato riconoscimento dei diritti civili alla popolazione locale; di diritto di voto non si parla neppure, e bisogna arrivare alla seconda metà degli anni Cinquanta perché le autorità francesi valutino seriamente la concessione di forme di autogoverno.

 


 

(qui trovate la seconda puntata del racconto di Enrico Brizzi)