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il foglio sportivo

Dove c'è il caos, lì regna Lotito

Fulvio Paglialunga

Non solo la sua Lazio seconda in classifica. È lui l’uomo da guardare per capire come gira il potere nel calcio

Claudio Lotito lo immagini solo così: impegnato a gestire in maniera confusa il numero imprecisato di cellulari che porta con sé; affannato e sbrigativo perché con mille interessi diversi da curare; di corsa mentre parla con concitazione per convincere gente che le sue idee sono le migliori, che è meglio allearsi. Chi lo ama, ma non è nemmeno una condizione necessaria, lo segua.
Lotito è il presidente della Lazio che in classifica sta tra la Juve – una delle società più ricche d’Europa (decima per fatturato, e in crescita) – e l’Inter di Suning – gruppo cinese di enorme potenza economica. Dovrebbe gongolare e invece sembra farlo poco. O forse siamo abituati a vederlo tronfio e quindi non ci accorgiamo della differenza. Perché parliamo molto di Lotito, ma non è colpa nostra: è lui che non riesce a stare lontano dal centro dell’attenzione. Vuole visibilità, potere. E poi vuole esibirlo. Qualcuno ricorderà quando si aggirava durante le partite della Nazionale con la felpa degli azzurri, manco fosse uno dello staff: era un semplice consigliere federale senza nemmeno la delega per la squadra azzurra, ma si atteggiava a padrone. Voleva far sapere che la Federazione era in gran parte roba sua: era stato eletto Tavecchio, ma i voti li aveva portati lui e doveva farlo pesare. Voleva tutto, si era preso anche un ufficio al quinto piano di via Allegri, che formalmente era quello di Maurizio Beretta, nel 2014 vicepresidente vicario della Figc e presidente della Lega. Ma chi aveva portato i voti a Beretta? Il modo per rimarcarlo era occupare la scrivania dell’amico spedito ai vertici del pallone, così come mettersi la felpa significava ricordare a Tavecchio di chi erano i meriti, se era arrivato a capo della Federazione.

 

È l’uso sfrontato del potere, che Lotito traduce in voti. Di fatto è un politico. Avrebbe voluto esserlo davvero, ma non è stato eletto al Senato con Forza Italia due anni fa perché ha scelto il partito sbagliato. Di solito non gli succede: i cavalli su cui punta sono quelli vincenti. Semplicemente perché il pacchetto di voti è suo e lo gestisce lui. Lo fa nella Lega di A, da presidente della Lazio, nella Lega di B, da proprietario della Salernitana, potrebbe farlo nella Lega di C, ora che le voci lo danno interessato al Catania. Tutto forma la ragnatela, il suo modo di creare potere.

 

Non è un mistero come un uomo evidentemente mal sopportato, considerato a metà tra la macchietta e lo zio petulante, sia invece sempre colui che dà le carte. Ha una strategia chiara, sempre uguale, sempre funzionante: lui sa che le società piccole sono più numerose delle big, sa che i club hanno bisogno di certezze subito, e vivono di oboli, non di investimenti. Per cui poco importa sapere qual è il progetto più lungimirante, è fondamentale capire chi paga prima. E spesso a questa domanda porta la risposta Lotito, che così coalizza le società e sposta equilibri. È l’operaio che gira con la cassetta degli attrezzi nei cortili dei palazzi e arrotonda con i lavoretti: il ricco lo ignora, perché per fare i lavori in casa chiama la ditta quotata e si mette a posto, gli altri lo chiamano perché così spendono meno e almeno temporaneamente il problema è risolto, poi si vedrà.

 

Ogni volta che c’è un’elezione, una nomina, una sfida di potere nel governo del calcio ci sono sempre due candidati: quello di Lotito e un altro. Quasi mai il candidato è Lotito, perché il principio è che lui è un mediatore di interessi, ma non può soddisfarli. Si pone come uomo di cucitura, lo era ai tempi dello strapotere di Infront e Bogarelli sui diritti tv e sui ricavi delle società, sta tornando ora che la partita per il calcio in tv si gioca tra chi vuole dare tutto nelle mani di Mediapro – e, guarda il caso, di Bogarelli –, creare un canale della Lega e distribuire soldi subito alle piccole società, che ne hanno un disperato bisogno, e chi no. Il destino di Lotito è essere Richelieu, non re: quando ha provato a candidarsi in prima persona a capo della Figc ha raccolto la metà dei voti della serie A e la metà della serie B. Un buon numero, ma non sufficiente: qualcuno non se l’è sentita di consegnarli tutto, meglio averlo come schermo verso un altro potente.

 

Non ci sono manovre segrete, quando si muove Lotito. È una politica sguaiata, lui crea il caos perché in quel momento può ritagliarsi un ruolo. Le lotte di questi mesi all’interno della Lega sono anche opera sua, il disordine in tutti i luoghi di potere del pallone ha un padre certo: perché una nuova elezione e una poltrona che rimane vuota, sono occasioni per creare accordi, fare alleanze, passare all’incasso. Persino il procuratore federale, fino a qualche settimana fa, era diretta emanazione sua. Con Giuseppe Pecoraro era legato da un’amicizia solida, mai nascosta. E quando in Lega è scoppiato il caso che ha fatto cadere la presidenza di Gaetano Micciché (per opera di chi?), immediatamente è stato nominato un commissario che avrebbe dovuto portare l’assemblea delle società all’elezione di un sostituto. Chi era il commissario? Mario Cicala, dimessosi poco dopo perché si era scoperto che aveva un incarico nella Lazio di Lotito, che non era stato dichiarato nel curriculum. Ora il nuovo obiettivo è Luigi De Siervo, amministratore delegato della Lega che ha la colpa di seguire con troppa attenzione il tentativo d’accordo con Mediapro per i diritti tv che, per Lotito e le piccole società che lo seguono come si segue il Pifferaio magico, dev’essere chiuso e basta. Peraltro anche De Siervo è un ex uomo di Infront, ma lo era nel nuovo corso, non in quello in cui l’advisor camminava sotto braccio con Lotito, quel tempo in cui presidente della Lazio diceva al telefono che era lui che parlava con “quello che portava i soldi”.

 

È tutto sufficientemente caotico, vuol dire che è il suo momento. Perché sì, la Lazio in lotta per lo scudetto è una soddisfazione enorme per un presidente che ha pensato ai bilanci prima di ogni cosa e che si è distinto spesso per la sua micragna, che voleva Bielsa e ha dovuto richiamare Inzaghi e ora sventola il tecnico come un trofeo, una geniale intuizione. Ma niente è emozionante come la prossima elezione, una nuova alleanza, nuovi accordi da cercare. Lì Lotito si prende il palcoscenico, le stanze, le felpe, chiama a raccolta gli amici. Se non ne ha, se ne fa di nuovi. Con la concitazione senza cui non sarebbe riconoscibile. Nemmeno con la felpa della Nazionale.

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