Claudio Lotito (foto LaPresse)

Revenge Lotito

Maurizio Crippa

Tutti ora fanno chapeau alla sua Lazio fatta in casa. La vendetta all’italiana sul calcio-finanza

L’uomo è simpatico come un cencio bagnato in faccia (almeno visto dai media che lo detestano, ricambiati di pari antipatia). Di persona invece sarà un cioccolatino, ça va sans dire. Certi incorreggibili vezzi da lucky man who made the grade, le citazioni da latinista, la villa sull’Appia, le pose filosofali lo collocano sul palcoscenico della commedia eterna all’italiana: non proprio nel ruolo del Bell’Amoroso, ma neppure in quello del malvagio. Un italiano senza tempo, un po’ il pallino degli affari e un po’ il fiuto delle vie giuste. Adesso però Claudio Lotito, romano, imprenditore, presidente della Lazio dal 2004 e dal 2011 proprietario, ce l’ha fatta a diventare the man in the spotlight del calcio italiano, il presidente della società di media stazza ma quasi in ordine (il bilancio consolidato 2019 si è chiuso in rosso di 13,2 milioni, c’è chi sta peggio) e della squadra più in palla. La sua vittoria. Non quella calcistica, anche se neppure quel prudente piacentino di Simone Inzaghi tace più la parola, e del resto sono gli unici ad avere menato la Signora 3-1 e 3-1 due volte di fila. Quello si vedrà. Ma l’obiettivo di Lotito nel pianeta calcio era un altro. La sua revenge inseguita per una vita: il riconoscimento del successo contro quei big che ha sempre guardato da sotto in su. Invece adesso è a capo di un club che sta in cima, assieme alle tanto invidiate multinazionali del calcio. E devono farlo entrare dalla porta d’onore, e rispettare l’uomo d’azienda e il genio del calciomercato. Nel club dei super ricchi (Torino e le due Milano, quando erano due) in cui non sono mai stati accettati davvero altri padri-padroni pure di miglior portafoglio. Né De Laurentiis né Cecchi Gori e neppure i Della Valle. Perché non sono stati bravi come lui. E invece a lui, entrato dalla porta di servizio, ora tocca dire di sì.

 

 

Una sorta di Conte di Montecristo della serie A, l’unico in grado di salvare la Lazio dal disastro del calcio-finanza di Cragnotti. Con i soldini suoi, con lo zelo dell’imprenditore sparagnino. E con quel talento politico che non si impara nelle business school col quale gli riuscì un gioco che è riuscito poi solo a Salvini: farsi spalmare i debiti della Lazio col fisco in 23 anni. Pagando 5,65 milioni all’anno. Poteva diventare un presidente minore, pronto ad accucciarsi all’ombra, come tanti altri patròn che ogni tanto la sparano grossa per far vedere ai tifosi di esistere. Lui le spara anche grossissime, e spesso incartate nella carta vetrata. Ma intanto – di riffa e di raffa – in Lega, sui diritti televisivi, sugli arbitri si fa valere. Non è che sia Robin Hood che ruba ai ricchi per dare a quelli poveri: è uno che sa usare le cordate meglio di Tarzan le liane. Che non sia simpatico a tutti è chiaro. Come è chiaro che debba gestire la curva più estremista d’Italia, il che lo rende sospetto al paese sportivamente corretto. Però intanto ha annunciato che porterà ogni anno 200 giovani tifosi ad Auschwitz, e non tutti lo hanno fatto. L’uomo è questo, con la sua visione da populista antisistema del calcio. Con lo sfottò pronto per chi compra bidoni multimilionari, con la lacrima umida per i torti reali o fantastici, e con quell’arroganza naturale figlia del non essere figlio di nessuno. Ha molti amici, ma un piano sotto il salotto buono. Astuto, immaginifico fino allo strafalcione, bravo. 

 

E oggi Claudio Lotito sta vivendo la sua rivincita. Ha costruito un gioiellino, meglio di Percassi. E lo ha fatto a Roma, non a Bergamo. Ed è una rivincita su quell’Italia delle inchieste infinite che l’ha sempre messo sotto schiaffo (la sua resilienza ai giudici lo rende assai simpatico).

 

Uomo di rivincite, ma più discrete, è del resto anche il suo totemico allenatore. Suo fratello Super Pippo in campo era d’altra statura. Ma poi decise di tuffarsi in panchina dal trampolino più alto e ha sbattuto in una piscina vuota. Simone invece s’è fatto la gavetta con calma e adesso guarda negli occhi chi non ci credeva. Il lotitismo, come sistema di pensiero, è tutto qua. Molto lavoro, tigna e cordoni della borsa stretti, essere furbi come al bazar. Una bravura particolare è scegliere i collaboratori. Igli Tare, suo ex calciatore pescato per un pugno di soldi, è oggi venerato come un genio del mercato. Ha portato a Formello Luis Alberto per 7 milioni, e ora è uno dei migliori assistman d’Europa, e Lucas Leiva per 6,5. E Milinkovic-Savicć per 10. Pure Immobile è un recupero dalla discarica spagnola e ora è il capocannoniere. Scostante, presuntuoso, ma che sa il fatto suo, Lotito è la risposta italiana (non diremo sovranista) al calcio della riccanza globale. Ora gli fanno posto in salotto, e non hanno più niente da ridere manco quando vedono l’aquila che vola sull’Olimpico.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"