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La palude della Lega calcio ha inghiottito il calcio italiano

Giovanni Battistuzzi

Così l'immobilismo dell'organo che gestisce il massimo campionato italiano ha costretto il calcio tricolore alla marginalità

Il pallone italiano scorre tra due cumuli di pietre, che ancora muri non sono, ma che basta uno sputo di malta a renderli solidi. Da un lato c'è il presidente del Coni Giovanni Malagò, dall'altro c'è la Lega di serie A, in mezzo un presidente da eleggere e un commissario che pende sulla Federazione italiana giuoco calcio. Quello che Malagò vorrebbe volentieri e che invece la maggior parte dei club della massima divisione calcistica vorrebbe evitare come la peste. Perché un commissariamento vorrebbe dire meno possibilità di libertà di azione per i presidenti delle squadre, vorrebbe dire rispondere a qualcuno legato al Comitato olimpico, vorrebbe dire, soprattutto, presentare conto a qualcuno con il mandato di cambiare per davvero le cose. Che poi riesca a farcela è ancor tutto da vedere, ma molte volte solo l'impegno e il tentativo di mettere in piedi qualcosa di diverso possono provocare malumori e mal di pancia. E a questi il calcio nostrano ha sempre cercato di fuggire.

 

E così mentre la serie B ha eletto il suo capofila, ossia Mauro Balata - avvocato cassazionista e per qualche settimana commissario della seconda divisione al posto di Andrea Abodi, dimessosi nella scorsa primavera per concorrere all'elezione federale -, la serie A prova a cercare un accordo che al momento non c'è e che appare difficile, ma non impossibile, prima dell'11 dicembre, data nella quale scade il commissariamento della Lega, ancora presieduta da Carlo Tavecchio, dopo che nell'aprile scorso i club non avevano trovato un accordo sulla riforma dello statuto, e, di conseguenza, non avevano eletto né il presidente né gli altri ruoli vacanti dopo la scadenza del quadriennio olimpico.

 

Una palude dove i presidenti sono rimasti immobili per non affondare sino a oggi, bloccati in posizioni che ormai si sono cristallizzate attorno a due figure. La prima è quella del presidente della Lazio Claudio Lotito ha radunato attorno a sé almeno nove società e vorrebbe proporre alla guida della Lega Ugo Marchetti, 70 anni, al momento ex generale della Finanza in pensione, oppure Raffaele Squitieri, di professione magistrato, ma in pensione ed ex presidente della Corte dei Conti. La seconda è quella di Andrea Agnelli, che sembrava essersi fatto un po' da parte, ma che dopo l'addio al Milan di Adriano Galliani, si è riposizionato al centro del palcoscenico. Insomma uno scontro tra le due realtà del calcio italiano, le medio piccole contro le  grandi supportate da quelle squadre che gravitano attorno agli esuberi delle grandi. Ma se le prime sono organizzate e il loro fronte sembra stabile, le seconde sono ancora alla ricerca di un nome attorno al quale far fronte comune.

 

Non ci sono dunque novità. E' questo infatti il gioco di posizione al quale i vertici della serie A giocano ormai da decenni. Trincea contro trincea e poco male se nulla cambiava. Ché c'erano i soldi delle televisioni a non rendere drammatica la situazione e l'assenza di una presenza forte in Lega, in primis, e poi nella Federcalcio. Tutto ciò serviva a permettere alle squadre di mantenere lo status quo, a non rendere necessario una reale riforma. Una riforma che avrebbe potuto migliorare la condizione finanziaria futura, ma che avrebbe soprattutto obbligato i club a investimenti importanti, che in molti non volevano e che alcuni non si sarebbero potuti permettere. E scendere di categoria per ricostruire un futuro vincente, è dinamica che nessuna società in Italia potrebbe permettersi nemmeno di concepire.

  

"Il calcio ha bisogno di riforme profonde - ha detto martedì Malagò - e resto convinto che la strada migliore sia quella di commissariarare la Figc per un periodo lungo. La mia posizione è netta, direi categorica: il calcio italiano va riformato e cambiato: non si può non passare da un commissariamento con poteri ampi, e lungo. Perché il male esiste alle radici ed è di carattere statutario". Un male, che c'è e che la mancata qualificazione al Mondiale di Russia 2018, sommata alle eliminazioni premature alle ultime due Coppe del Mondo, hanno reso anche fin troppo evidente, e che viene da lontano e che si è depositato anno dopo anno per quasi tre decenni.

 

E' il 1993 l'anno di svolta e di non ritorno. E' l'anno nel quale il calcio italiano scopre i soldi delle pay tv. Sino ad allora la Lega incassava da Rai e Mediaset 110 miliardi di lire. Nel triennio 1993-1996  però la vendita dei diritti per le dirette integrali dell'anticipo e del posticipo a Tele+ fecero salire gli introiti a 200 miliardi l'anno. Tra il 1996 e il 1999 il passaggio ulteriore: Tele+ acquista per 400 miliardi annui la diretta di tutti gli incontri della serie A e il calcio cambia sede: passa dagli stadi ai divani. Gli impianti sportivi perdono spettatori, le tv guadagnano abbonati e il governo D'Alema agevola quello che sembra essere la panacea di tutti i mali del calcio attribuendo "la titolarità dei diritti di trasmissione televisiva in forma codificata": insomma ogni squadra tratta per sé i contratti con le televisioni a pagamento. Soldi che sistemano buchi di bilancio, che aumentano le offerte per giocatori, che danno l'idea che il bengodi possa non finire mai. Perché investire in strutture che costano e pesano sui bilanci quando si può avere giocatori pronti e formati per vincere subito?

 

L'Italia è all'avanguardia sotto questo punto di vista. Nessuno campionato in Europa è ancora visibile completamente in tv e gli incassi per i club sono molto superiori alla media degli altri campionati. L'ingresso della pay-tv Stream prima della stagione 1999-2000 dopa ancor più il mercato: la lotta per accaparrarsi le squadre fa salire gli incassi della Lega a mille miliardi. L'uscita di scena di Vivendi da Tele+ e la seguente vendita di Tele+ a Stream, anch'essa inglobata da Sky (Stream come Sky è di proprietà di Ruperth Murdoch), fa diminuire il giro di denaro e inizia a creare una massiccia frattura tra i grandi club e le piccole realtà di provincia.

 

Il ritorno alla vendita centralizzata dei diritti avverrà nella stagione 2010/2011 e porterà a una, seppur leggera, diminuzione della distanza tra prime e ultime della classe. Ma porterà soprattutto con sé l'evidenza che la sbornia da pay-tv ha lasciato il calcio italiano decisamente indietro rispetto alla concorrenza internazionale. I club hanno fatto però spallucce, hanno confidato nel miracolo sportivo, che puntualmente era arrivato con qualche mese di anticipo: il triplete dell'Inter di Mourinho. E che poi si è quasi ripetuta l'anno successivo con la finale europea ottenuta dalla Nazionale di Prandelli.

 

Ma l'idea che tutto potesse essere messo a posto con le entrate da diritti televisivi ha fatto perdere all'Italia la partita europea.

 

E lo dicono i numeri. Se infatti, come riportato nel libro Goal di Marco Bellinazzo, nel 2000 il fatturato delle squadre di serie A era in linea con quello della Premier League (1059 milioni rispetto a 1150), nel 2016 la massima divisione italiana ha invece fatturato meno della metà di quella inglese, 1,9 miliardi rispetto 4,9.

 

Un tracollo dovuto principalmente alla mancanza di investimenti. In Inghilterra la Federazione ha obbligato le squadre a modernizzare infrastrutture e settori giovanili. I club hanno fatto il resto: hanno deciso di non vendere la totalità delle partite alle tv, hanno deciso di esportare il brand all'estero, hanno allargato i propri affari anche fuori dal mondo del pallone: terreni, hotel, store ecc. Stadi pieni e magliette vendute, tour in tutto il mondo e vagonate di soldi dagli sponsor, orgogliosi di associare la propria immagine a strutture moderne.

 

In Italia il calcio si è invece fermato a litigare sugli zero virgola dei contratti, ha preferito puntare sulle scappatoie contabili, su ammortamenti e plusvalenze contabili. E così mentre gli inglesi creavano, le squadre italiane rimandavano anno dopo anno il conto con casse vuote e sempre meno risorse per invertire la rotta. Anche perché, col tempo, i soldi generati dalle pay-tv si sono rivelati bazzecole rispetto ai premi della Champions League e la distanza di programmazione si è rivelata sempre più ampia.

 

L'unica squadra che ha guardato al modello europeo fregandosene dei dissapori italiani è quella che vince da sei anni consecutivamente il campionato e che per due volte è andata in finale nella coppa europea più importante: la Juventus.

 

La Figc ha sempre sottovalutato la questione o ha fatto finta di non vedere. Gli scandali sono stati superati dalla vittoria di un Mondiale che è stato il timbro dell'ultima grande generazioni di talenti del calcio italiano, forse non la più forte, sicuramente una delle più determinate.

 

Ora che la nazionale ha fallito in modo clamoroso, gli inghippi si sono evidenziati meglio e la Lega si ritrova senza l'uomo che era riuscito a placare gli animi bellicosi di presidenti molto più bravi a fare i tifosi, molto più bravi a spendere, e neppure molto, che a far di conto pensando al futuro. Perché Carlo Tavecchio era riuscito in questi anni a fare da paravento a un movimento che mostrava la sua pochezza decisionale, ma che nonostante questo riceveva occhiatine e assegni buoni da più o meno sedicenti gruppi d'affari di tutto il mondo.

 

Il futuro prossimo porta a lunedì, a un'assemblea dove con ogni probabilità non si deciderà nulla. Poi ci sarà l'11 dicembre, il giorno entro il quale la Lega serie A cercherà il colpo di coda per evitare il commissariamento, per evitare insomma di dover far i conti con i propri errori.

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