“Sono cattolico, sono cresciuto cattolico, i miei figli sono cattolici”. Quando l'ex cestista, nel pieno della tempesta più difficile della sua vita, un’accusa di stupro infamante, decise di abbracciare la sua croce
“Sono cattolico, sono cresciuto cattolico, i miei figli sono cattolici”. Nel pieno della tempesta più difficile della sua vita, un’accusa di stupro infamante, con una moglie sposata da poco e pronta ad andare via, Kobe Bryant aveva deciso di abbracciare la sua croce. Nella California e nella Los Angeles del trans-umanesimo, del Dio che è morto, Kobe “l’italiano” aveva deciso di affidarsi a un prete. “Dio non ti darà nulla che tu non possa affrontare”, aveva deciso di affidarsi a queste parole del prete con cui aveva discusso dei suoi problemi. Può apparire paradossale che uno sportivo come Bryant, che ancor più che nel talento aveva nella testa (Mamba mentality) la sua forza avesse un rapporto così intimo con la religione. Un uomo spigoloso (come tutti quelli che hanno carattere) diretto, a volte brutale. Uno sportivo che non lasciava nulla al caso e che preferiva svegliarsi due ore prima degli altri, perché così avrebbe avuto più tempo per allenarsi mentre gli altri dormivano. Del resto se ti attribuisci il nome di un serpente velenoso, Mamba, non avrai sicuramente come modello il buon samaritano. Kobe Bryant era l’intelligenza artificiale applicata allo sport prima dell’intelligenza artificiale. “È una pura questione di matematica”, disse quando gli chiesero perché ripeteva in maniera sistematica e inesorabile le serie di tiri sempre dallo stesso punto, per poi spostarsi a quello successivo, con lo stesso metodo scientifico studiava nei dettagli i suoi avversari e le loro prestazioni così da poterne anticipare ogni mossa. Nulla era lasciato al caso, nulla. Per alcuni, nella metodicità e nel rigore di Bryant forse era addirittura possibile intravedere una sorta di hybris scientista, una continua sfida alle barriere dell’umano dove i limiti del corpo, da spazio incarnato della nostra impotenza, diventano barriere da abbattere di continuo per migliorare le nostre prestazioni. Accettare che vi fossero dei limiti che non fosse possibile superare non aveva mai fatto parte della mentalità di Bryant. Homo faber per eccellenza, perché avrebbe dovuto rinunciare a esplorare i confini delle sue possibilità e rassegnarsi a uno stato di natura che lo aveva fatto crescere nei campetti da basket della periferia italiana?
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