Cristiano Doni (foto LaPresse)

il foglio sportivo

Atalanta, ti ricordi di me?

Emmanuele Michela

La squalifica per scommesse e ora la prescrizione. Cristiano Doni vuole uscire dal buco nero: “Dea, perdonami”

A Cristiano Doni non piace guardarsi indietro. “La partita più bella giocata con la Dea? Non lo so, ci devo pensare”. 46 anni, di cui più di 20 spesi da professionista del pallone, la metà con addosso i colori nerazzurri dell’Atalanta, di cui è stato simbolo e ancora oggi il miglior marcatore (112 reti in 296 gare). Parlando con il Foglio Sportivo l’ex capitano della Dea fugge dai pensieri della sua vita da calciatore. “Sai che non so risponderti?”, dice. Ricorda quando giocò con Totti in Nazionale, la maglia che chiese a Zidane (“Il migliore contro cui giocai”), i derby con il Brescia. Ma al suo “io” calcistico dedica poche parole, e ancora meno vorrebbe spenderne per quel buio in cui si è trovato avvolto nel 2011, alla fine della sua carriera, quando finì nel tritacarne del calcioscommesse.

 

L’iter giudiziario è stato tortuoso, si è intrecciato tra giustizia penale e sportiva. L’inchiesta portò all’accusa di associazione a delinquere finalizzata alla frode sportiva: per il primo capo d’imputazione si fece cinque giorni di carcere, poi il reato decadde; la frode è andata in prescrizione la scorsa estate. Per quest’ultima, però, la commissione disciplinare della Figc gli comminò tre anni e mezzo (poi aumentati di altri due) per illecito sportivo, e la sua carriera finì nel peggiore dei modi. Doni ha lottato in silenzio in questi anni, ammettendo l’omessa denuncia. Coi giornali è diventato diffidente e di interviste ne ha concesse poche, si è ricostruito una vita ma non riesce a gioire per la fine della trafila giudiziaria: “In tanti mi hanno chiamato a luglio, dopo la prescrizione. Ma dico la verità: non ho provato contentezza. Ho subìto troppa violenza, non riesco a sorridere. Sia chiaro, non faccio la vittima: ho sbagliato e mi sono preso le mie responsabilità. Ma non posso essere quell’etichetta, io ho fatto vent’anni da calciatore ai massimi livelli e mi fa arrabbiare essere ricordato per quel casino”.

  


Illustrazione di Lorenzo Conti


 

C’è un buco nero nell’anima dell’Atalanta che vive oggi le sue stagioni più belle, e non basta volare in Champions League per dimenticarsene. La fine sportiva del suo calciatore più rappresentativo, l’addio più violento che ci potesse essere non ha nulla di paragonabile al paradigma del calciatore che tradisce per andare a giocare in un club rivale. Qui è successo qualcosa di più, lo scoramento è ben più profondo. Gli anni hanno portato a un lento riavvicinamento tra la città e Doni, mentre la sua posizione in merito all’inchiesta sul calcioscommesse si chiariva: “Anche perché un tradimento non c’è mai stato. All’inizio fu raccontato così, sembrava che fossi un venduto”, prosegue Doni. “La cosa mi pesò molto perché non era vero: ho sbagliato certamente, dovevo denunciare quello che era successo. Ho saputo cosa facevano alcuni colleghi e non ho detto nulla. Mi sono assunto le mie responsabilità e ho pagato, anche più del dovuto. Ma sono sempre andato in campo solo per vincere”.

 

Resta, però, il buco nero. Qualche settimana fa un giornalista ha fatto al presidente Antonio Percassi una domanda sul possibile ritorno di Doni allo stadio: “Se me lo chiede, non c’è nulla in contrario”, aveva replicato Percassi. L’ex capitano ammette di aver fatto richiesta: “Sto aspettando una risposta”. Sembra un caso di stato. In fondo Doni è un cittadino libero e potrebbe andare ovunque: “Certo, e potevo farlo già negli scorsi anni. Ma non tornare allo stadio è stata una mia scelta: non voglio andare in quella che è stata la mia casa nascondendomi. Ma ora il polverone è passato, ho pagato tanto ma ho anche dato tanto, da calciatore”. Pesa ogni parola: “Mi piacerebbe e penso di meritare il perdono”. Tutto ruota qui, in fondo, attorno a un termine, perdono, per nulla scontato, detto quasi con meraviglia. “Non voglio tappeti rossi, ma per questa maglia ho dato tanto. Il tifoso vero vedeva in campo quello che facevo, ho dato l’anima per questa squadra. Il calcio è pieno di ipocrisia, ma quando vai in campo tutto finisce: quella è la realtà”.

 

A dire il vero, Doni è tornato allo stadio a vedere l’Atalanta, ma era a San Siro per il match di Champions League contro la Dinamo Zagabria. “Ero agitato più io dei giocatori. È andata benissimo: tanti tifosi mi hanno riconosciuto e salutato, qualcuno mi ha chiesto una foto. ‘Vai a tirare tu quel rigore’, mi dicevano quando ha segnato Muriel”. Certo, però, “andare all’Atalanta” – il linguaggio dei tifosi è semplice ed essenziale, e vedere una gara della Dea allo stadio si dice così qui – è tutta un’altra cosa. “Il mio top club è sempre stato questo, non ho mai sacrificato nulla per stare qui. Mio figlio ha sei anni ed è atalantino: voglio che possa essere orgoglioso di suo papà e andare allo stadio con lui”.

 

Già, il figlio. “Mi ha salvato la vita”, non ci gira troppo intorno. Lukas ha 6 anni, è il secondogenito ed è nato dopo il gran caos, aggiungendosi a Giulia, di 16. “Diventare padre a 10 anni di distanza, per di più con la stessa donna, incredibile!”, scherza, ma in un secondo riacquista onestà: “Ho scelto di essere un padre presente con lui, stargli vicino, senza ovviamente trascurare l’altra che nel frattempo è diventata adolescente, e mi spiace non essermela goduta troppo, quando era piccola, anche a causa del calcio. Mio figlio sa che suo papà è stato calciatore, anche se non mi ha mai visto. Raramente però gli faccio vedere immagini di allora. È una cosa che non mi piace”.

 

La vita di Cristiano Doni oggi è segnata da quella frattura del 2011, sebbene da allora non abbia mai smesso di rimboccarsi le maniche per cominciare una nuova partita: oggi gestisce alcune attività in campo commerciale e immobiliare, oltre a lavorare per una società che fa scouting tra i giovani. E vive a due passi da Bergamo, città che non ha mai abbandonato nonostante si scrisse, dopo il suo coinvolgimento nell’inchiesta sul calcioscommesse, che fosse fuggito a Mallorca. “Fu la cosa che più mi fece male tra le tante falsità che si dissero. Io non scappai. Sarebbe stato facile farlo, ma non pensavo che fosse giusto, né per me né per la mia famiglia”. A Bergamo gira senza particolari problemi, dice di non avere una vita mondana esagerata (“ho 46 anni e due figli”), ha il capello ancora sufficientemente lungo per riconoscerlo come l’ultimo Doni visto sulle figurine una decina di anni fa, ma appena si alza dalla sedia gli fa male la schiena per il calcetto della sera prima (“gioco a 7 con alcuni amici ed ex compagni di squadra: ci sono pure Ariatti e Pelizzoli”).

 

La vita, insomma, ha preso una piega tutto sommato serena: “Mi sarei tolto comunque dai riflettori, anche se farlo in questo modo è stato terribile”. Doni parla di una vita senza radici e del terreno fertile trovato a Bergamo per farsele. Nato a Roma da genitori liguri, già da bambino andò a vivere a Verona per seguire il lavoro del padre: da calciatore ha girato molto (Modena, Rimini, Pistoia, Bologna e Brescia) prima di arrivare in nerazzurro. “Ho trovato una città che si sposava bene con la mia indole: discreto e lavoratore. Quando finiva la partita di calcio tornavo a essere Cristiano. Eppure il tifo qui è sempre stato straordinario: caldo e viscerale”.

 

Riecco, quindi, il suo legame con Bergamo, città che tanto ha reso orgogliosa quanto poi graffiata. Croce e delizia, memoria e oblio. “Se non vivessi qui forse avrei dimenticato il mio passato da calciatore. Mi piace che qualcuno ogni tanto me lo ricordi, anche sui social, capita che su Instagram qualcuno mi scriva o pubblichi qualche immagine. Ma altrimenti ho quasi la sensazione di essere stato un altro. Cristiano è sempre stato diverso dal Doni calciatore. Io non avevo paura del distacco: ovviamente non volevo smettere così, ma non ero comunque preoccupato del dopo. Fu Percassi a insistere perché continuassi”.

 

Il riferimento è a quanto accadde nel 2011, dopo il ritorno in Serie A dell’Atalanta. Il presidente orobico spinse affinché Doni firmasse il rinnovo del contratto per altri 2 anni, sebbene le primavere sul suo groppone fossero già 38. Sullo sfondo c’era la prospettiva concreta di diventare anche dirigente della squadra nerazzurra: “Percassi è una persona straordinaria: con lui si creò subito un’empatia forte”. Erano gli anni in cui l’imprenditore bergamasco aveva appena rilevato il club: “La società era in divenire, si stava organizzando, quindi io facevo anche da consigliere. Quando mi chiamava mi faceva gran piacere: le responsabilità mi sono sempre piaciute, e capitava di fare riunioni anche a mezzanotte. Mi aveva molto coinvolto, tanto che mi diceva che voleva farmi presidente dell’Atalanta dopo il ritiro”. Poi il caos calcioscommesse cambiò i piani: “Mi spiace aver perso questa possibilità. Da atalantino e conoscendo le dinamiche di questa squadra pensavo di avere i requisiti di farlo bene. Era un sogno lavorare con l’Atalanta, che era casa mia”.

 

Il pentimento riaffiora: “Non dovevo mettere il naso in quella storia. So di aver sbagliato, non voglio passare per un santo. Ma mi fa male che poi tutto sia stato raccontato in maniera diversa: ogni cosa che dicevo veniva travisata”. La sua faccia testimonia però che Doni ha saputo trovare la forza per uscire dal fango più putrido in cui si è trovato, anzitutto in sua moglie Ingrid (“è stata un gigante”) e negli amici: “Penso che dopo la morte quello che mi è successo è la cosa peggiore che ci possa essere. Ma uno cerca di fare di necessità virtù, trovando sempre la spinta per rialzarsi”.

 

Ecco perché quindi trovarsi un nuovo lavoro è stato fondamentale, così come non perdere il legame con la propria famiglia e con gli amici che non lo hanno mai mollato: è ciò che la vita gli ha messo davanti per rialzarsi. “Tutto può essere di lezione: mi sento certamente una persona migliore ora”. Quello che gli è mancato è stato il supporto del mondo del calcio: “Mi aspettavo altro”. Si ritorna a parlare degli anni alla Dea ma i ricordi affiorano a fatica, pochi alla volta. Spende qualche parola per gli allenatori: “Vavassori fu colui che mi capì subito e mi sorprese, con Colantuono ebbi un ottimo rapporto, con Conte mi scontrai”. Poi sulla Nazionale del 2001-2002: “Ero l’intruso, c’erano dei fuoriclasse autentici. Ma quel Mondiale era segnato: quella squadra era ben più forte di quella che vinse nel 2006”. Ma il match più bello giocato con la Dea ancora non riesce a prendere forma. È là, forse, nel buco che ha divorato Bergamo e Doni, e aspetta di essere illuminato.

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