Di necessità virtù: storie di calcio femminile

Simonetta Sciandivasci

Stefano Massini fa partire la storia delle Ladies Football Club, una delle prima squadre di calcio femminile della storia, e spiega una cosa fondamentale: il calcio serve, così come serve il lavoro, anche se per ragioni diverse

Ha detto Maurizio Mosca che nelle società dello spettacolo il calcio è bellissimo, peccato però che ci siano le partite. Chissà cosa ne avrebbe pensato Penelope Anderson, che complicava tutto, ed era una Sibilla. Abigail Clarke, che vedeva le cose come stanno, e parlava chiarissimo e aveva sempre ragione, l’avrebbe presa per quello che è: una dichiarazione di noia e, anche, l’ammissione di una delusione. Quando giocavano a calcio loro, la società dello spettacolo non c’era, e neanche c’erano le partite: c’era la guerra, quella Grande, che s’era presa tutti i maschi, svuotando le fabbriche, che allora si servirono dei bambini e delle donne. Abigail e Penelope erano due di loro, lavoravano insieme alla Doyle & Walker Munizioni, e una volta, in un pomeriggio come tanti, il 6 aprile del 1917, avevano trovato nel cortile dove facevano pausa una palla, e avevano preso a giocarci. Era un prototipo di bomba, la Sister K, sorella gemella della Bomb k4. Aveva cominciato Violet Chapman, aveva fatto il primo tiro, e Rosalyn Taylor, che era lì, e che a casa sua era stata abituata a guardare i fratelli giocare a football, sentendosi dire che lei non poteva, perché prima doveva imparare, fece una cosa che non aveva mai fatto: anziché portar via la palla, la calciò.

 

Da quel pomeriggio, Stefano Massini fa partire la storia delle Ladies Football Club, una delle prima squadre di calcio femminile della storia, e la racconta in un poemetto che è appena uscito per Mondadori e spiega una cosa fondamentale: il calcio serve, così come serve il lavoro, anche se per ragioni diverse. Ed è per questo che, in assenza dei maschi, le donne presero il loro posto sia nelle fabbriche che nei campi di gioco, e fecero di necessità virtù. Nessuno vuole fare il portiere, eppure qualcuno che stia in porta si trova sempre, “perché serve”. A chi? si chiesero le ragazze. Risposte: a Dio, a Madre Natura, al sistema, a chi vive di sfruttamento, e soprattutto “a qualcuno per fare sul serio”. Così disse Abigail, l’operaia oracolo che è forse il perno del racconto, quella che ne chiarisce il senso e ne incarna l’eroina: la praticità.

 

Le donne che iniziarono a giocare a football lo fecero per desiderio ma soprattutto perché serviva al paese, per andare avanti, dire che si era ancora vivi, che la guerra aveva ammazzato molte persone ma non lo spirito umano, e non aveva ridotto i superstititi a sopravvivere, ma li aveva invogliati a vivere, a non permettere che le cose di prima se ne andassero. Quando le ragazze ottennero di giocare la loro prima partita, e lo stadio era pieno come per una finale mondiale, e stravinsero, il capo della Doyle&Walker subodorò l’affare e le mandò a giocare contro una squadra di adolescenti, naturalmente maschi. Che fatto strepitoso.

 

Massini lo racconta mettendoci dentro lo scrupolo di queste 11 operaie che volevano vincere ma si sentivano madri di quei ragazzini spediti furbescamente al massacro contro di loro, e pensavano tanto a segnare quanto a lasciarlo fare a loro – “e fu chiaro un’altra volta che a fregar le donne non è la debolezza, ma la compassione”. E’ vero che lo sport è unisex e il calcio è calcio, come dicono le pubblicità progressiste, ma è pure vero che una donna scende in campo da donna, coi pensieri di una donna. Il 20 dicembre del 1918, le Ladies giocarono allo Stamford Bridge di Londra “contro gli uomini, quelli veri”. Indossarono, per la prima volta, le cuffiette. La guerra era finita, i maschi erano tornati e se proprio dovevano vederle giocare, anche se s’illudevano che sarebbe stata l’ultima volta, non ammisero che si rasassero i capelli. Per la prima volta da quando erano diventate calciatrici, si misero la cuffietta rosa per tener ferme le chiome. Rosalyn Taylor, innervosita da quell’affare in testa e pure dalla concessione che stavano facendo a lei e a tutta la squadra (con questa partita vi ringraziamo del rimpiazzo, dopodiché vi leverete dalle palle), pensò che non era scritto da nessuna parte che una partiera non poteva segnare e quindi avanzò verso la porta degli avversari, finché uno di loro le disse: “Brava, t’insegno un trucco: fissa un punto e non guardarti i piedi”. E lei, che aveva tolto la palla ai suoi fratelli tutti le volte che le avevano detto che non poteva giocare con loro, perché poteva soltanto imparare, prese il pallone e scappò via dallo stadio. Scusate lo spoiler, ma state certi che questo libro ha una partita in ogni pagina: vi rifarete, leggendolo.

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