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Un carillon di spade

Giovanni Battistuzzi

Una pedana, due fioretti che si scontrano in un gioco di bambina: il suono della scherma

Ting. Un Si bemolle le era arrivato nitido all’orecchio. Tang. Ecco un Sol. Teng. Un Fa. Una nota dietro l’altra come fosse una musica. Sotto la maschera un sorriso. Non c’aveva mai fatto caso. Tang, teng. Ora un Fa e un Sol. E tung. Un Mi bemolle. Il vociare delle persone, le suole che strisciavano sulla pedana, anche l’avversaria erano in un attimo diventate tutto uno sfondo confuso. Quel suono, quello del fioretto che incontrava l’altro fioretto, l’aveva rapita come arrivasse da un mondo lontano che conosceva senza però ricordare quale fosse.

 

La sirena. Il rosso che si illumina per primo. Punto avversario. Doveva stare concentrata, non poteva perdere quell’occasione. Una finale mondiale poteva non ricapitarle più.

 

Eppure quelle note che erano risuonate velocissime in pedana le aveva chiare in mente. Si tolse la maschera, guardò l’allenatore, il pubblico, la sua famiglia con la bandiera italiana con su scritto “Forza Elisa”. Piegò il fioretto. Ting. Si bemolle, Sol, Fa, Sol, Fa, Mi bemolle. Erano le stesse note che uscivano dal carillon che le aveva regalato suo padre da piccola, quello che stava sul comodino e senza il quale non riusciva ad addormentarsi. Quello con la ballerina che roteava all’infinito sulle note del Notturno Opera 9 n° 2 di Chopin.

  

La francese era una vipera. Piccola e sgusciante, imprendibile a volte, capace di mordere anche quando sembrava spacciata, quando era al limite della pedana e trovava il modo di ribaltare ciò che sembrava già scritto. L’aveva studiata bene, sapeva come colpirla. Ma la conoscenza non sempre è semplice da mettere in pratica, soprattutto quando ci si gioca ciò per cui ci si è allenati anni, quando si è a un passo dal sogno di una vita.

 

Annette aveva quasi il doppio dei suoi anni, un passato di vittorie che a lei ne sarebbe bastato mezzo e la volontà di continuare, di considerare l’addio alle armi come qualcosa di remoto, lontanissimo. Più di una volta l’aveva sentita dire che avrebbe continuato sino a quando il fisico glielo avesse permesso. E stava ancora benissimo. Gambe e braccia che non sentivano l’età, una schiena perfetta, il corpo di una ventenne sotto un volto che mostrava piccole rughe che sembravano uno scherzo della vista. Per anni Annette era stato il suo mito. Ora non più. Più di una volta si era trasformata nel suo peggior incubo. Ma un incubo non è altro che lo sgretolamento di un obbiettivo, il ritorno alla realtà dopo aver creduto a un finale diverso.

 

Annette, più di una volta, si era trasformata in un ceffone in pieno volto. Uno di quelli che fanno maledire l’attimo nel quale si è scelta la propria via. Un cambio di priorità, quel brivido strano che ti fa capire che è quello e solo quello che vorresti fare. E poco importa se era un gioco, una videocassetta di eroi d’un passato che forse così non era mai esistito davvero, qualche saccagnata tra fratelli. Quel brivido l’aveva sentito la prima volta che aveva guerreggiato in giardino. Si era riproposto quando era salita in pedana.

 

Lei non era come suo padre. Lui coi suoi vestiti eleganti a chiacchierare di note con tutti, a farsi bello con le musiche degli altri, a farsi modesto, almeno a parole, elogiando le doti meravigliose della figlia quando per la prima volta l’aveva trovata a strimpellare al pianoforte la melodia che usciva dal carillon. Aveva più o meno quattro anni e le fu facile, quasi naturale, trovare i tasti che riproponessero il suono che faceva vorticare la ballerina.

 

La sirena. La luce che si illuminò questa volta di verde. Stava recuperando. Una stoccata di svantaggio.

 

Sulla tastiera ci era stata anni. E all’inizio le era pure piaciuto. Quasi fosse un gioco fatto di mattoncini di note con i quali ricreare castelli di suoni. E che soddisfazione al primo concertino della scuola. I riflettori tutti per lei e la faccia di suo padre sorridente. E le parole agli amici che parlavano di viaggi e teatri tutti per lei, quasi fosse un’eroina che conquistava il mondo.

 

La tastiera però era fatta dei soliti ottantotto tasti e non usciva mai dal salotto che, dalla solita finestra, inquadrava le risate del fratello e degli amici. La ghenga dei moschettieri trasformava il giardino di volta in volta in Versailles, in Camelot, in scenari magnifici nei quali lei non riusciva però a entrare. E quando chiedeva a suo padre il permesso di immergersi in quelle storie, la risposta era sempre la stessa: “Tuo fratello non è come te. Il tuo futuro è la musica e per avere un gran futuro non devi distrarti da ciò che diventerai”.

 

Ancora la sirena. Ancora la luce verde. Pareggio.

 

Sugli spalti suo padre esultava, sventolava la bandiera, gridava “forza Elisa”.

 

La francese si tolse la maschera. La vide per la prima volta bramare avidamente ossigeno, cercare con lo sguardo l’allenatore quasi per trovare nei suoi occhi la forza per non demordere. Era sempre stata in vantaggio di almeno due stoccate. E ora che mancavano due punti alla vittoria si era fatta rimontare. Sapeva che bastava un punto ancora e sarebbe crollata. Doveva continuare, non farla avvicinare troppo, impedirle di sfruttare la sua velocità nello stretto e chiuderle la destra com’era riuscita a fare.

 

Ting. Tang. Tang. Teng. La sirena. Il verde. Un solo punto e la vittoria sarebbe stata sua.

 

Suo padre sorrideva felice. Proprio lui che per anni non le aveva parlato quando gli disse che non voleva più suonare il pianoforte. Proprio lui che, quando portò a casa la prima coppa vinta in una gara, sbottò con disprezzo: “Non sarà una medaglia a convincermi che la vita di mia figlia è una vita sprecata”. Ora era là a esultare, ad applaudirla.

 

Guardò il suo fioretto. Se lo rigirò tra le mani come fosse Excalibur o Durlindana, come fosse una di quelle spade in legno che costruiva col fratello in estate in montagna, quando finalmente non c’era la musica, ma solo prati e giochi a riempire i suoi pomeriggi.

 

Si rimise la maschera e sbuffò. Impugnò il fioretto pronta a fare ciò che doveva fare.

 

Teng. Teng. Tang. Non c’erano più le note del fioretto. Solo lo scontrarsi delle lame. La sirena.

 

Ting. Tang. Tong. La musica del carillon però ancora la sentiva. E vedeva le sue dita muoversi veloci e sicure sulla tastiera. Ancora la sirena. Si levò la maschera. Incontrò gli occhi di suo padre. Sorrise nel vederli spenti, sfiniti, mossi solo da un profondo disgusto. Vide la francese in ginocchio gridare la soddisfazione dell’ennesima impresa. Poi rialzarsi e guardarla stupita quasi a chiederle il perché di quegli errori da principiante quando tutto sembrava deciso.

 

Le avrebbe voluto dire che aveva dei conti in sospeso, qualcosa da mettere a posto. Si limitò ad allargare le braccia, girò le spalle e se ne andò.

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