Quando lo sport diventa perfezione

Marco Pastonesi

“Fare bene un gesto, non importa quale. Trovarlo, fra mille possibili. Innamorarsene, prendersene cura”. Capolavori, il libro di Mauro Berruto

Allenare: insegnare, istruire, educare; dirigere, guidare, accompagnare; anche, e ancora, e sempre, imparare. Allenare: talvolta alleviare, spesso allertare, perfino allietare. Mauro Berruto è partito da un’atleta, Nadia Comaneci, da un torneo, l’Olimpiade di Montreal 1976 (lui aveva sette anni, lei non ancora quindici), da un’immagine in bianco e nero, alla tv, da un esercizio, alle parallele asimmetriche. Perfetto. Il primo 10 nella storia della ginnastica artistica. “Fare bene un gesto, non importa quale. Trovarlo, fra mille possibili. Innamorarsene, prendersene cura”.

 

Capolavori” (Add editore, 208 pagine, 16 euro) è la storia di un laureato in Filosofia, allenatore della nazionale italiana di pallavolo (e prima di quelle greca e finlandese) e direttore tecnico della nazionale italiana di tiro con l’arco, passando da amministratore delegato della Scuola Holden (narrazione, quella di Alessandro Baricco, per capirci), ed è la storia della sua filosofia dello sport alla ricerca della perfezione prima che del risultato, e della bellezza prima che della vittoria. Anche se per un allenatore, soprattutto di un c.t. o di un d.t. delle nazionali, risultato e vittoria non sono obiettivi secondari.

 

Quali sono i capolavori secondo Berruto? Il secondo gol di Diego Armando Maradona nell’Argentina contro l’Inghilterra ai Mondiali 1986 dopo aver dribblato sette avversari, ma anche il Giudizio Universale di Michelangelo nella Cappella Sistina; l’esercizio agli anelli di Jury Chechi ai Giochi di Atlanta nel 1996, ma anche l’IKB 82 di Yves Klein esposto al Guggenheim Museum di New York; lo straziante arrivo della maratoneta Gabriela Andersen-Schiess all’Olimpiade di Los Angeles nel 1984, ma anche “L’atleta di Fano” e “Il pugile a riposo” di Lisippo, il primo custodito nel Museo di Villa Getty a Malibu in California, il secondo al Museo Nazionale a Roma. Capolavori di bellezza, ma anche di fatica; capolavori di perfezione, ma anche di imperfezione; perché i capolavori non si trovano solo nelle vittorie e nei vincitori, ma anche nelle sconfitte e negli sconfitti. Il capolavoro, sostiene Berruto, è quando “riusciamo a sublimare il gesto tecnico fino ad annullarlo, arriviamo a una specie di ‘satori’ sportivo, un istante di piena illuminazione, una sorta di annullarsi cosciente del soggetto”. Cioè: “Atleti completamente liberi”. E “a quel punto l’allenatore, raggiunto il proprio capolavoro, può sparire. Il suo lavoro è terminato”.

 

Berruto ha cominciato dalla pallavolo, e le è eternamente grato: “Tutto nasce da un’intuizione per la quale dovremo sempre ringraziare il reverendo William G. Morgan colui che, alla fine dell’Ottocento, inventò la pallavolo e ne codificò la regola fondamentale: quella per la quale non si può bloccare il pallone e neppure toccarlo due volte consecutivamente. La rivoluzione copernicana del reverendo Morgan era quella di rendere obbligatorio il passaggio. Questo fatto, da quando la pallavolo esiste, ha frustrato la speranza del singolo atleta di poter essere decisivo per il risultato finale. La pallavolo non è fatta per gli egoisti”. E dopo avventurose vicende, è approdato al tiro con l’arco, e ne è stato sedotto: “Questa disciplina è fondata su un paradosso. La freccia, quando vola, ha un comportamento aerodinamico sorprendentemente metaforico”. “La freccia, quando scoccata, inizia a dimenarsi come se fosse dotata di vita propria, prima ancora di lasciare l’arco. La forza, applicata attraverso il rilascio della corda sulla parte posteriore, fa incurvare la freccia. La punta si allontanerà dal bersaglio, andrà verso sinistra, ma ritornerà verso destra dopo pochi istanti… e così via, fino a quando si conficcherà nel bersaglio”. “Siamo sollecitati da continue necessità di adattamento, correzioni, una danza che ci fa allontanare, avvicinare, riallontanare, riavvicinare a ciò che desideriamo”. “E’ così, in generale, nella nostra vita: non si centra il bersaglio senza saper uscire dalla traiettoria ideale”.

  

Ma c’è altro, molto altro, qui e nella vita. C’è la poesia di Muhammad Ali, “Me We”, “letteralmente, un riflesso, una simmetria che restituisce in maniera esteticamente perfetta, un concetto: c’è qualcosa in quell’immagine che ci parla del singolo, del suo potenziale, delle sue ambizioni, che si riflette in un’identità collettiva, qualcosa di più grande dell’individuo stesso”. C’è Padre Pedro Opeka, che in Madagascar aveva fondato un villaggio sopra la discarica di Andralanitra e lì “insegnava prima il calcio e poi il Vangelo, esattamente in quell’ordine, perché altrimenti i bambini se ne sarebbero andati da un’altra parte”. C’è il pittore inglese William Turner, come tutti, meglio di tutti, dipingeva le tempeste marine guardandole dalla spiaggia, finché “si fece legare all’albero maestro perché voleva mettere sé stesso al centro della tempesta. Voleva sentirne l’effetto, permettere all’acqua gelata, al vento, al freddo di sferzare il suo corpo. Un’esperienza totalizzante”. E c’è anche il Piccolo Principe, pardon, Antoine de Saint-Exupéry, che suggerisce: “Se vuoi costruire una barca, non radunare uomini per tagliare la legna, dividere i compiti e impartire ordini, ma insegna loro la nostalgia per il mare vasto e infinito”.

 

Capolavori” è, nel suo genere, a suo modo, un piccolo capolavoro.

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