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All'Open Championship è spuntato Shane Lowry

Corrado Beldì

Il golfista irlandese conquista il suo primo Major nella gara di casa. Quello che è successo al Royal Portrush Golf Club tra pioggia, vento e birre

Pioggia, vento e un putt mancato alla 18 da Rory McIlroy, tagliato senza pietà alla fine del secondo giro, per un solo misero colpo. Poteva essere un weekend deprimente all’Open Championship per il golf irlandese e invece venerdì, insieme a un raggio di sole, è spuntato il campione che non ti aspetti. Shane Lowry, irlandese di Mullingar, trentadue anni, solo cinque vittorie in carriera ma in questi giorni sui campi di casa una mano leggera, colpi secchi, effetti sicuri e un putter caldo, del giocatore che sente l’occasione e buca dopo buca ha l’aria di non volersela far sfuggire per nessuna ragione al mondo.

 


Shane Lowry (foto LaPresse)


 

Lowry non è nuovo ma queste sorprese, dieci anni fa, ancora dilettante, vinse l’Irish Open, un trionfo a sorpresa davanti a uno stuolo di campioni, anche quella volta giocava in modo creativo e leggero, come un discorso di Michael O’Leary, suo concittadino e fondatore di Ryanair, genio assoluto del massimo risultato con il minimo sforzo, proprio come il gioco di Shane, in apparenza senza fatica, in tre giorni, a piccoli passi ha scavato un solco tra sé e gli avversari.

 

Pian piano gli altri contendenti si sono liquefatti, di Rory abbiamo detto, Tiger Woods non ha passato il taglio, Molinari è sempre stato nelle retrovie, tranne oggi con un buon ultimo giro e poi gli americani Finau, Spieth, Johnson, Reed, tutti ai piani alti ma tra bunker e fairway mancati, mai nessuno è arrivato in doppia cifra tranne l’inglese Tommy Fleetwood, l’altro eroe della Ryder Cup, i capelli fluenti e le camicie più bizzarre del circuito, spesso una promessa mancata, nei primi tre giri invece regolare e sempre più aggressivo, 68, 67, 66, con un quarto in giro da record porrebbe farcela.

 

Irlanda contro Inghilterra, il derby che abbiamo sempre sognato. Sotto la pioggia poi la lotta è ancora più intensa. Per sentire davvero gli umori dell’isola ho mollato Portrush, la sala stampa, i prati verdi e i quattrocentomila occhi per venire a Belfast, a vedere le ultime 18 buche tra un pub e l’altro e per una domenica come questa non c’è posto migliore dell’angolo tra Amelia e Great Victoria Street. Quattro pub per quattro birre di fila, la prima è leggerissima e glocal, una Belfast Lager, prodotta a meno di due miglia da qui, è la birra che avrebbe ordinato Camillo Langone, me la servono con l’Ocean Fish & Chips da Nicholson‘s, da non confondersi col grande Ben, stamattina ho visto un suo quadro all’Ulster Museum e c’era pure un video di Cornelia Parker con un drone che entra a Westminster e sparge i giornali appoggiati sul banco del Lord Chancellor che alla fine ricoprono i banchi di tutta l’aula, notizie su Theresa May e su omicidi di provincia e su Conte che lascia il Chelsea e da un’idea di confusione del governo britannico, perfetto per una mostra da queste parti. Certo come sempre vado fuori tema, me lo diceva sempre la maestra, in effetti stavo parlando di Nicholson’s, il freehouse fondato nel 1873, un posto elegante, gli schermi non ci sono ma trasmettono la cronaca dell’Open in diretta radio, un sottofondo leggero ma stanno tutti con le orecchie tese e quando Lowry mette il birdie alle 6 e va a -18, sei colpi di vantaggio, c’è un’esplosione tra i tavoli e la tipica eleganza anglosassone per un attimo si trasforma in une bolgia da stadio.

 

Pago il conto e mi trasferisco al piano terra a Crown Liquor Saloon, è il gin palace più famoso di Belfast, fondato nel 1826, vittoriano in ogni dettaglio, tutto identico dal 1885 e infatti è stato acquisito dal National Trust, l’orologio del FAI, come se il Fondo Ambiente Italiano a Milano, avesse acquisito Taveggia, Marchesi, Cova, Sant’Ambroeus e magari anche il Bar Basso per evitare gli scempi passati e futuri, per non citare il mio amatissimo bancone del Grand Hotel Des Iles Borromées, quello su cui Hemingway ha bevuto tre Martini in due pagine di “Addio alle Armi”, smontato sei anni fa senza che la Soprintendenza a Novara muovesse un dito, ogni volta mi chiedo se erano in vacanza, invece molto più probabilmente erano andati a fare la spesa all’Esselunga.

 

Ogni volta che ci penso mi viene il nervoso e allora ordino una Smithwick’s rossa da Kilkenny, per sostenere Lowry che fa due bogey alle 8 alle 9, per fortuna ha ancora cinque colpi di vantaggio. Certo tra un pub e l’altro si comincia a sentire un bel po’ di tensione e infatti questa rossa me la bevo d’un fiato, come la bottiglia d’acqua gassata che Lowry si scola sul tee della 10. Chissà che sete e che tensione, mancano meno di due ore per scoprire se sarà proprio lui, come tutti qui si stanno augurando, il quinto irlandese dopo Fred Daly (1947), Padraig Harrington (2007-2008), Darren Clarke (2011) e Rory McIlroy (2014) a sollevare la Claret Jug. Per la prima volta in terra d’Irlanda. Una scusa in più, per tutti quelli che si ammassano al Crown Liquor Saloon, per prendersi un’altra sbronza.

 

Il drive alla 14 è un po’ fuori misura ma con un ferro sette Lowry prende il green mentre la pioggia si fa sempre più intensa.  Il putt lo vedo da Robinsons, in questo luogo dal 1895, la carta da parati rossa, le incisioni di cavalli e i mobili di legno scuro, ordino la mia seconda rossa, è una Whitewater da Castlewellan e mi arriva dopo dieci minuti, nel pub si sono ammassate ormai più di trecento persone, davanti agli schermi c’è un’atmosfera da mondiali di calcio. Sono tutti  visibilmente tesi, esultano a tratti, altre volte precipitano nel silenzio, temono l’errore, sanno che nel golf la tragedia è dietro l’angolo ma il bello da Robinsons è che basta passare una porta e arrivi al Fibber Magee, è il quarto pub in una manciata di yards, un motivo in più per amare Belfast, come entrare in un altro film, niente schermi e nessuno a cui freghi qualcosa del golf, fanno musica dal vivo tutto il giorno e c’è una band che suona Brown Eyed Girl di Van Morrison e allora si balla tra i tavoli e le bottiglie e c’è tantissima Irlanda e una stout mezza piena quando all’improvviso, dal pub di fianco, arriva un boato per Lowry. Ha messo il birdie alla 15. Un gruppo di signore si abbracciano. A questo punto è quasi fatta.

 

La quarta birra è tutta per Shane, sorso dopo sorso, è il primo irlandese a trovarsi a tre buche dalla vittoria nell’Open Championship sui campi di casa. Mi prendo una pinta di stout, Arthur Guinness & Co della St. James’s Gate Brewery, calda, schiumosa, sa di torba e di argilla e finisce in un baleno alla 16, quando Tommy Fleetwood prende un doppio bogey e allora le telecamere inquadrano la piccola stanza della clubhouse di Royal Portrush dove è custodita la Claret Jug. Incredibile ma vero, l’incisore ha già iniziato a scrivere il nome del vincitore alla base della coppa, accanto a Harry Carson, Tom Watson, Old Tom Morris, Henry Cotton, Nick Faldo, Severiano Ballesteros, deve ancora giocare due buche e potrebbe fare un disastro ma oggi è un giorno scritto nella storia, come il nome del prossimo Open Champion, Shane Lowry da Mullingar, che mette due par di fila e alza il trofeo davanti all’ovazione di duecentomila persone e soprattutto di tutte quelle ammassate nei pub di mezza Irlanda, come il Robinsons Bars di Belfast, dove tutti esultiamo mente il nostro nuovo eroe solleva la coppa sotto un’acqua continua, quella che lo ha voluto accompagnare per quattro giorni, fino al colpo del trionfo nel torneo più antico e bello del mondo.

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