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Per una foglia di coca Paolo Guerrero perse la palla

Emmanuele Michela

Il Tribunale federale di Losanna ha respinto il ricorso del calciatore peruviano contro la sospensione stabilita dal Tas a luglio 2018 per essere stato trovato positivo a un metabolita della cocaina

Per raccontare la vita pazzesca di Paolo Guerrero, cresciuto in un barrio di Lima col sogno di far volare la sua Nazionale, in Perù si sono inventati una pellicola biografica, che narra della sua infanzia tra polvere e pallone, le prime partite all’Allianza Lima, la madre che lo insegue per i compiti… È la genesi di un campione che in patria ha superato, per numero di gol con la divisa Blanquirroja, un’icona degli anni Settanta come Teofilo Cubillas.

 

 

Il film, però, è uscito a Natale 2016, e non parla del capitolo più controverso e rocambolesco della carriera di questo campione, quello cioè relativo alla sua squalifica per doping.

 

Giovedì scorso, il Tribunale federale di Losanna ha respinto il ricorso del calciatore sudamericano contro la sospensione stabilita dal Tas a luglio 2018, forse la parola definitiva su tale processo che sta già tenendo Guerrero lontano dai campi da tanti mesi. Una vicenda cominciata nell’ottobre 2017, quando El Depredador fu trovato positivo alla benzoilecgonina, un metabolita della cocaina, e che tenne col fiato sospeso tutta la sua nazione, preoccupata per la partecipazione al Mondiale di Russia 2018 del suo bomber.

 

In realtà Guerrero si è sempre dichiarato innocente: non ha mai assunto cocaina, a sua detta, semmai un infuso fatto con foglie di coca, bevanda assai diffusa in Sudamerica. E in realtà alla Coppa del Mondo ha poi potuto partecipare, giocando tutte e tre le partite (contro Danimarca, Francia e Australia) e segnando perfino un gol, contro i Soceroos. Ma è stata solo una breve finestra felice: il Tas gli aveva infatti accordato una sospensione della squalifica proprio per permettergli di volare coi suoi compagni in Russia, dopo che il 34enne già aveva dovuto rinunciare al doppio play-off contro la Nuova Zelanda. Lo stesso Tas, per altro, nel maggio 2018 aveva confermato la tesi della Wada, estendendo a 14 mesi la squalifica già decisa dalla Fifa: Guerrero non si era dopato per migliorare le sue performance, ma era comunque stato leggero al punto di cadere in errore assumendo quella bevanda. 

 

Che sia la verità o no, in questi anni di dibattimenti gli avvocati di Guerrero hanno puntato tantissimo su quell’infuso, ricordando che in Sudamerica è assai comune e per nulla illegale masticare perfino foglie grezze di coca, utilizzate in Perù anche per vincere il mal di montagna. A dicembre 2017, addirittura, fu chiamato davanti alla Fifa un biochimico che sosteneva che la quantità di benzoilecgonina nelle urine di Guerrero somigliava più a quella di chi aveva bevuto un tè fatto con foglie di coca che a quella di uno sniffatore. Ma il colpo di magia della difesa doveva essere un altro, ovvero la testimonianza di un archeologo americano studioso della cultura Inca, che raccontò alla giuria del ritrovamento di tre mummie di bambini, rinvenuti alla fine degli anni Novanta congelati tra le nevi del vulcano Llullaillaco e risalenti almeno a quattro secoli prima. Nei loro capelli – era emerso dalle analisi di laboratorio – si era trovata proprio quella sostanza, la benzoilecgonina. La tesi era quindi far vedere come, già secoli prima che nell’Ottocento Albert Niemann separasse la cocaina dalla coca, era pratica diffusa in Perù consumare quelle foglie.

 

All’epoca Guerrero ebbe la pena dimezzata, salvo poi vedersela prolungata a maggio dal Tas, con la successiva sospensione della stessa per permettergli di giocare il Mondiale. Anche perché intanto c’era stato un gesto di galanteria rara: i capitani delle nazionali avversarie del Perù in Russia (Hugo Lloris, Simon Kjaer e Mile Jedinak) avevano scritto una lunga lettera alla Fifa per chiedere che l’attaccante sudamericano potesse giocare quel Mondiale. Così tanto desiderato da scomodare gli Inca per averlo.

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