Davide Astori

Davide Astori c'è

Alessandro Bonan

La sua immagine sorridente, la fascia di capitano, il numero 13. La simbologia sta resistendo alla marea del tempo che tutto spazza via

La sua immagine sorridente, la fascia di capitano, il numero 13. Davide c’è. La simbologia sta resistendo alla marea del tempo che tutto spazza via. Il ricordo tiene in vita Davide Astori, che povero non sarà mai. Egli è, mai fu. Il calcio, con le sue costanti apparizioni nella nostra quotidianità, contribuisce a farci vivere emotivamente una persona che ci ha lasciato, che non è più fisicamente fra noi. E quando vedi giocare la Fiorentina, ti sembra di scorgerlo in difesa a richiamare i compagni, in attacco a provare un salto nel cielo per segnare un gol di testa. Non sono allucinazioni, miracoli, suggestioni, sono immagini tanto vivide da sembrare reali. Davide c’è, e la sua sopravvivenza alla morte è una degna sepoltura. E’ vero, che ne sappiamo noi di un lutto così grande, quello che affrontano ogni giorno i suoi familiari. Come ci permettiamo certi discorsi. Chiediamo scusa per questo, perché di tutto ciò non conosciamo nulla. E anche se lo immaginiamo, non potremmo mai toccarlo, saperlo per intero. Perdere un figlio, un fratello, un compagno, un padre, una persona cara, non significa vivere un dolore ma essere, diventare il dolore stesso. E noi, di quella immanente sofferenza, non percepiamo che gli effetti lontani, il rimbalzo tra le valli, di quella disperazione. Come se fosse un’eco, di cui ci giunge l’ultima voce, flebile, quasi impercettibile. Ma in quello che accade quasi ogni volta nella domenica del calcio, c’è un fine autentico e buono. Molto di più di un semplice richiamo a non dimenticare. C’è la voglia di continuare a vivere insieme a lui, proprio perché era Davide Astori e non qualsiasi altro. In questa dimensione collettiva del ricordo subentra certamente una inclinazione molto umana ad auto suggestionarsi. Ma anche se fosse, non ci sarebbe nulla di male. Volergli bene senza averlo mai conosciuto non è un modo per esibire la parte più buona di noi, attingere a quella che gli psicologi chiamerebbero “area illusionale”, ma semmai per scoprire che questo angolo di sentimento esiste dentro le nostre persone. Le manifestazioni di affetto nei confronti di Davide sono l’apparizione del bene, e non (o forse non solo) di un qualcosa che ci redime. Nei suoi confronti si è sparsa in fretta una parola amorevole. Davide era buono, era intelligente, era sensibile. Davide era un bravo papà e un bravo compagno. Era un figlio riconoscente e rispettoso e un fratello affettuoso. Davide era un calciatore affidabile e un amico sincero. Davide era un capitano che non conosceva il tradimento. Davide era tutte queste cose, e il fatto di aver sostituito il tempo passato con quello presente ne rafforza l’immagine, ci fa sentire uniti, accompagna la sofferenza dei suoi cari dentro una stanza meno buia. Ed è per questo che un giorno Davide era, ma ancora oggi, è.

 

[Questo articolo è stato pubblicato nel Foglio Sportivo in edicola sabato 2 e domenica 3 marzo
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