Giocare a hockey a Las Vegas: la città fake fa il tifo per diventare vera

I Golden Knights si giocano la Stanley Cup all’esordio

New York. Giocare a hockey a Las Vegas potrebbe essere il titolo di un sequel di Leggere Lolita a Teheran, ché pattinare sul ghiaccio nel mezzo del deserto è attività altrettanto straniante e trasgressiva. Ma Las Vegas, lo sanno anche i turisti sullo strip, è un mondo che contiene tutti i mondi, anche se nella forma dell’imitazione a basso costo: la tour Eiffel del Paris Las Vegas è grande la metà di quella vera, i centurioni del Ceasar Palace sono anche più tristi di quelli che stanno fuori dal Colosseo, quello vero, e il Venetian è bello ma nessuno ci vivrebbe. Il fatto peculiare e degno di considerazione, perciò, è che l’hockey nella cattedrale del deserto è stranamente vero. Non è una trovata pubblicitaria – solo un esperto di marketing ubriaco la concepirebbe – non è un’allucinazione in stile Fear and Loathing in Las Vegas , non è una scommessa dopo una notte esagerata, non è un fake. I Vegas Golden Knights giocano, per davvero.

 

 

Lunedì sera hanno battuto, in una partita senza respiro, i Washington Capitals nella gara uno della finale per aggiudicarsi la Stanley Cup, il trofeo Sacro Graal che porta incisi i nomi di tutti quelli che l’hanno vinta dal 1893. Con il sistema di franchigie e draft, le leghe dei professionisti degli sport americani hanno sempre cercato di livellare il terreno ed evitare lo stradominio delle squadre più potenti, ma un po’ perché il sistema ha delle falle e un po’ per motivazioni storico-antropologiche il trofeo orbita solitamente in luoghi dove l’inverno fa freddo: Montreal, Boston, Chicago, Pittsburgh e via dicendo (ci sono le eccezioni, certo, vedi Tampa e Los Angeles, ma lì si è stabilita una tradizione). Las Vegas non ha nulla di tutto questo. Anzi, ha ancora meno: prima dei Golden Knights la città del Nevada non aveva mai avuto una squadra in un campionato di professionisti, in nessuno sport, e ai grandi magnati con capacità di spesa era sembrato sciocco impiantare squadre che vivono di pubblico e tifoseria stabili nel regno del provvisorio. Le feste di addio al celibato di Las Vegas non prevedono, di norma, un salto al palazzetto del ghiaccio.

 

Il miliardario William Foley ha tolto la maschera al luogo comune, svelando che Las Vegas non è solo azzardo, sesso e commercio di passaggio ma anche una città popolata da gente normale che stabilmente vive e tifa. Foley da giovane giocava a shinny, versione pedestre e ruspante dell’hockey, e la passione gli è rimasta addosso. Qualche anno fa gli è venuta l’idea di stabilire una nuova franchigia a Las Vegas e ha iniziato a muovere i passi necessari per soddisfare i criteri per una “espansione” del numero di squadre della Nhl. Dopo un’attenta preparazione la lega ha approvato l’aggiunta dei Golden Knights, i cavalieri dorati che Foley voleva chiamare i Black Knights, come il suo fondo d’investimento, ma la Nhl ha sollevato obiezioni sulla correttezza politica del nome. Si chiamano soltanto Vegas, e non Las Vegas, perché soltanto i turisti usano l’articolo. La stramba avventura dei cavalieri di Vegas, iniziata questa stagione, ha attirato vecchi giocatori di squadre importanti e vari rottami a fine carriera, il resto l’ha fatto una oculata selezione dei giocatori su piazza, agevolata da meccanismi che premiano le squadre neonate. L’esordio sul ghiaccio è avvenuto il 10 ottobre 2017, dieci giorni dopo la strage al concerto country, e il momento di commemorazione prima della partita è stato uno di quei rari casi in cui la città più sfilacciata e solitaria d’America si è unita. Da quel momento è stato tutto un bruciare di record e primati, fino all’arrivo alla finale, dove i cavalieri si sono presentati, contro ogni pronostico, come favoriti.