Arbitri a processo

Redazione

I fischietti finiscono in tribunale per un rigore non visto. Ultime dal populismo

Ai tempi del famigerato arbitro Byron Moreno, quello di Italia-Corea del sud, il processo intentatogli fu quello di Biscardi, con petizioni popolari, televoti aperti a ogni ora, appelli a Blatter, al presidente della Repubblica e forse pure al Papa. Sedici anni dopo, l’arbitro Piero Giacomelli di Trieste, suo malgrado autore di una prestazione non proprio perfetta in Lazio-Torino (campionato di serie A, dicembre 2017), finirà il prossimo giugno davanti a un giudice civile perché alcuni tifosi della Lazio gli hanno fatto causa. Una causa per risarcimento danni. Insieme al fischietto, in tribunale ci andrà pure il collega Marco Di Bello, che quella sera era l’arbitro Var. La sua colpa è di non aver visto il fallo da rigore a favore dei biancazzurri. Davanti all’invito alla negoziazione assistita – cioè a risolvere la controversia per evitare di adire l’autorità giudiziaria – i due arbitri non hanno risposto. E così Giacomelli e Di Bello sono stati citati in giudizio.

 

 

Il populismo ha così sfondato anche nel calcio: basta una lamentela per un rigore non dato, postato su Facebook o urlato in qualche radio locale, ed ecco che l’arbitro finisce davanti a un giudice, chiamato a rispondere sul perché non abbia giudicato volontario un tocco di mano, uno sgambetto, una manata virile sulla spalla. E’ il trionfo dell’assurdo, che tra le altre cose porta il calcio su un terreno inesplorato: quanto sarà sereno, d’ora in poi, l’arbitro che dovrà dirigere una partita sapendo che per un errore – umano – potrebbe essere citato in giudizio da orde di tifosi, pur “rispettabili”? Nel frattempo, attendiamo il verdetto del giudice civile chiamato a fare la moviola di Lazio-Torino, “in nome del popolo italiano”.

Di più su questi argomenti: