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Tutti insieme in difesa degli arbitri

Claudio Cerasa

Difendere un’istituzione. Cosa lega l’amore per il Royal Baby, il letame su Napolitano, il Var e gli anti casta del calcio contro i fischietti? Perché un paese che ha problemi con gli arbitri ha un guaio con la democrazia

È una questione di arbitri o è una questione di democrazia? Se mettiamo da parte il grigio romanzo delle consultazioni, con tutti i suoi tranelli, le sue truffe, le sue traiettorie, i suoi doppi giochi, i suoi vincenti incapaci di governare, e se mettiamo per un attimo da parte le notizie che arrivano dal Palazzo, con le timide aperture del Pd ai grillozzi, con gli indecisi occhiolini dei grillozzi al Pd, ci sono alcune notizie e alcune storie che non riguardano direttamente l’attualità italiana e che ci dicono però molto su un tratto interessante della nostra cultura politica.

 

Le notizie sono cinque. La prima riguarda la meravigliosa festa riservata dal Regno Unito all’ultimo dei Royal Baby, al terzo figlio di Kate Middleton e del principe William. Feste, abbracci, celebrazioni, amore sconfinato per la famiglia reale. La seconda notizia riguarda l’odiosa raffica di letame ricevuta negli ultimi giorni dal presidente emerito della Repubblica, sua altezza Giorgio Napolitano, che nelle ore in cui lottava per la vita è stato investito da un’ondata micidiale di insulti raccolti sulle peggiori bacheche social d’Italia. La terza notizia riguarda la recente scelta dell’Inghilterra di dire di no a una particolare forma di tecnologia chiamata Var (Video Assistant Referee, un sistema in cui due ufficiali di gara collaborano con l’arbitro in campo ed esaminano le situazioni dubbie della partita attraverso l’uso dei filmati): un sistema accolto invece nel campionato italiano con pieno giubilo dal partito della moviola in campo. La quarta notizia riguarda le minacce di morte ricevute dalla moglie dell’arbitro che ha fischiato il rigore contro la Juventus nel quarto di finale di Champions League. La quinta notizia, infine, riguarda la storia di un arbitro della serie A, Piero Giacomelli, finito in tribunale dopo una causa voluta da alcuni tifosi che gli hanno chiesto un risarcimento per un rigore negato alla Lazio durante una partita con il Torino.

 

La gioia per il Royal Baby. L’odio per il presidente emerito. La Var respinta. Il processo all’arbitro. Le minacce alla moglie di un fischietto. Vi starete chiedendo: ma che cosa diavolo lega queste notizie? Ma cosa vi siete bevuti? Se ci pensate bene, e se mettete a fuoco il ragionamento, il filo che lega queste storie è piuttosto evidente. Esistono paesi in cui le gerarchie vengono abitualmente rispettate, amate, coccolate, celebrate ed esistono paesi in cui le gerarchie vengono invece sistematicamente usate prima di tutto per essere infamate. Esistono paesi in cui gli arbitri vengono rispettati, protetti, criticati, ma non demonizzati, ed esistono paesi in cui gli arbitri in quanto tali diventano i capri espiatori dei problemi di un paese. Esistono paesi che riescono a definire una propria identità senza dover necessariamente processare chi prende le decisioni ed esistono invece paesi che non riescono a definire una propria identità senza processare chi prende le decisioni. Un paese abituato a non sputare sulle istituzioni, di fronte a una scelta criticabile di una istituzione fa di tutto per non trasformare un possibile errore in un’occasione per delegittimare l’istituzione.

 

Un paese abituato a sputare sulle istituzioni, sui suoi arbitri, di fronte a una scelta criticabile fa di tutto per trasformare il possibile errore in un pretesto per mettere in piedi un processo alla categoria. O, se volete, alla casta. L’amore, l’affetto e il rispetto per la famiglia reale che esiste nel Regno Unito deriva tra le tante cose anche dalla consapevolezza che celebrare un’istituzione è un modo per celebrare anche se stessi. L’odio, il fango, le ingiurie rovesciate contro il presidente emerito, Giorgio Napolitano, derivano invece da un meccanismo diametralmente opposto e dall’incapacità di anteporre alla rabbia anti sistema una forma di orgoglio per il proprio paese. Una nazione abituata a delegittimare chi arbitra tende sempre a considerare bravo un arbitro solo se l’arbitro prende decisioni gradite. E per questo ogni possibile errore commesso dall’arbitro diventa automaticamente non un errore dovuto alla non infallibilità dell’uomo ma un errore nato dal dolo, dall’idea che quell’arbitro abbia voluto punire qualcuno, abbia voluto parteggiare per l’altro. L’odio contro Giorgio Napolitano, dobbiamo dirci la verità, non nasce per caso. Ma nasce da un processo preciso di cui il presidente emerito è stato vittima: l’ex capo dello stato, per anni, è stato trasformato in modo viscido e strumentale nel simbolo di un sistema marcio da superare e la violenza con cui è stata armata la politica di delegittimazione contro l’ex presidente ha contribuito a convalidare l’idea farlocca che il mondo perfetto in cui è necessario vivere sia quello in cui le gerarchie devono essere rispettate solo a condizione che non prendano decisioni.

 

All’interno di questa cornice, un paese come l’Italia, schiavo della cultura anti casta, non poteva che essere all’avanguardia nello sperimentare un sistema come il Var, che piuttosto che avere l’effetto di migliorare le performance degli arbitri, le performance di chi decide, ha contribuito a mettere in evidenza la nostra incapacità a fidarci pienamente di chi si occupa di far rispettare le regole del gioco. E non fidarsi di un arbitro, se ci pensate un istante, non è un modo per legittimare ancora di più le istituzioni ma è un modo per arrendersi alla loro inevitabile e avvenuta delegittimazione. I giornali italiani non hanno dedicato molta attenzione al caso giudiziario dell’arbitro Giacomelli, ma se ci riflettete un attimo l’idea che alcuni tifosi di una squadra di calcio possano andare da un avvocato per denunciare l’arbitro perché avrebbe alterato “il regolare corso del gioco”, causando ai denuncianti “frustrazione e rabbia derivanti dall’aver partecipato, inermi, alla ingiusta penalizzazione della propria squadra”, è un qualcosa di mostruoso. Qualcosa che ci ricorda che si è ormai affermato il principio secondo cui i veri giudici del mondo debbano essere non coloro che vengono scelti per arbitrare ma coloro che osservano chi sta arbitrando. Qualcosa che ci ricorda che per qualcuno mettere gli arbitri sotto processo – persino minacciarli – è considerato il modo migliore per responsabilizzare chi deve far rispettare le regole. Ci si può girare attorno quanto si vuole e si possono fare tutte le contro-obiezioni del mondo al nostro ragionamento – il caso Alfie, che viene dall’Inghilterra, non verrà utilizzato come uno strumento per delegittimare un sistema, verrà utilizzato per segnalare un problema del sistema. Ma se vogliamo, il punto in fondo dovrebbe essere chiaro: una nazione che odia gli arbitri, che non rispetta le sue istituzioni, è una nazione che di solito ha problemi non con il suo modello calcistico ma più semplicemente con il suo modello di democrazia. Come diceva con saggezza il grande Henry Ford quando c’è un sistema che ha un problema non perdere troppo tempo a cercare il difetto: concentrati prima di tutto a trovare il rimedio. Viva gli arbitri. Viva il Re. Viva il Royal Baby.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.