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Il politicamente corretto cancella un pezzo di storia del baseball: via l'indiano dal logo di Cleveland

Giovanni Battistuzzi

Dal 2019 la franchigia di baseball della capitale dell'Ohio perderà Chief Wahoo, il suo simbolo. La Mlb ha sentenziato che "non è più appropriato". Peccato fosse un tributo al primo giocatore professionista nativo americano

Chief Wahoo ha ancora pochi mesi di vita. Sparirà all'inizio del 2019, eliminato come si fa con chi non serve più, con chi non è più gradito. Chief Wahoo da simbolo è diventato infamia, un reietto da far scomparire. Eppure è solo un cartone, la faccia simpatica di un indiano, rossa e sorridente, un po' furbastra, con una piuma in testa. Chief Wahoo è Cleveland, almeno nel baseball, non solo un logo, un emblema, uno stemma marchiato a fuoco nella memoria sportiva locale e statunitense. O meglio, lo era, prima di diventare peso e polemica. Prima di essere qualcosa da sacrificare sull'altare del politicamente corretto. Dopo settant'anni di onorata militanza sulle casacche degli Indians, Chief Wahoo sparirà perché la Major League Baseball, la lega professionistica di baseball nordamericana, tramite il direttore Rob Manfred, ha sentenziato che "non è più appropriato".

 

Per capire la portata dell'evento è come se la lupa scomparisse dal simbolo della Roma o l'aquila da quello della Lazio in seguito alle proteste degli animalisti.

 

Era da anni che la comunità dei nativi americani criticava gli Indians per l'utilizzo di quello che consideravano "una caricatura razziale offensiva", in quanto perpetrava "stereotipi sbagliati nei confronti delle popolazioni indigene", sfruttando commercialmente "un marchio che ritraeva un nativo americano". Era da anni che Phillip Yenyo, direttore esecutivo dell'American Indian Movement of Ohio, si scagliava contro "l'utilizzo ingiustificato di immagini e loghi che appartenevano alla minoranza dei nativi americani".

 

Negli ultimi vent'anni alcune delle battaglie del movimento dei nativi americani si erano già tramutate in vittorie: i Redman della St. John's University nel 1994 diventarono i Red Storm, mentre le squadre della University of North Dakota, un tempo conosciute come Fighting Sioux, vennero rinominate Fighting Hawks nel 2015.

 

Il movimento nativo americano però non riuscì a impedire ai Washington Redskins, squadra della Nfl, la massima lega professionista di football americano, di utilizzare il loro storico logo. La franchigia, il 18 giugno 2014, era stata intimata a sostituire il simbolo della squadra – un profilo di un nativo americano – dal Trademark Trial and Appeal Board (TTAB) dell'Ufficio brevetti e marchi degli Stati Uniti (USPTO), dopo la denuncia del Congresso nazionale degli indiani d'America. La squadra si appellò alla Corte Suprema degli Stati Uniti che, nel giugno 2017, sentenziò all'unanimità che i Redskins avevano "piena legittimità di preservare il proprio logo".

 


Un tifoso con la bandiera dei Washington Redskins (foto LaPresse)


 

"Un'effigie, un logo, è un simbolo di appartenenza, un sistema sociale complesso che unisce in un'unica immagine un numero elevatissimo di persone", scrisse il filosofo e sociologo tedesco George Simmel sul finire dell'Ottocento. In ambito sportivo, seguendo il ragionamento di Desmond Morris "assume il ruolo di oggetto totemico, che deve essere rispettato, protetto e mostrato", un modo per incrementare quel "sentimento tribale nascosto" che è "la base psicologica e sociale sulla quale si fonda la stessa identità del tifo".

 

Un'identità che dal 1948 i tifosi dei Cleveland Indians identificavano in Chief Wahoo. L'immagine dell'indiano con il sorriso e la piuma fu il simbolo del ritorno alla vittoria della franchigia dell'Ohio dopo oltre vent'anni di sconfitte e sfortune. Fu il disegnatore Walter Goldbach a realizzarlo nel 1947, fu il presidente Bill Veeck a sceglierlo l'anno successivo e a stamparlo sulle magliette, le stesse che conquistarono le World Series (le finali del campionato Mlb tra le vincitrici della National League e dell'American League).

  


I giocatori dei Cleveland Indians festeggiano la vittoria della Mlb nel 1948. Sulla manica la prima versione di Chief Wahoo


 

Nel 1948 i Cleveland Indians erano la squadra dell'integrazione, della parità di diritti tra bianchi e neri. Sotto l'effige di Chief Wahoo lanciavano Larry Doby e Satchel Paige, i primo giocatori afroamericani a passare dalla Negro League (le leghe sportive statunitensi di baseball professionistico le cui squadre erano formate esclusivamente da giocatori afroamericani) all'American League (il primo in assoluto fu Jackie Robinson, ma giocava nella National League).

 

E prima di Doby e Paige a Cleveland giocò Allie Reynolds, il primo giocatore di origine indiana d'America del baseball professionistico statunitense.

 

Reynolds, per tutti Superchief, era figlio di un predicatore protestante e di una donna di etnia Muscogee (Creek), giocò per gli Indians dal 1942 al 1946 - prima di passare ai New York Yankees – e fu uno dei migliori lanciatori della sua epoca. Divenne un idolo della tifoseria. Fu soprattutto un mito per Walter Goldbach, che proprio in suo onore disegnò Chief Wahoo, prendendo spunto da alcune strisce di fumetti molto famose in quegli anni. Nel 1954, il giorno dell'addio al baseball di Allie Reynolds, Joseph R. Garry, presidente del Congresso nazionale degli indiani d'America, lodò il contributo del giocatore per "il superamento delle barriere razziali", sottolineando "come la sua grandezza sarà ricordata ogni volta che la franchigia di Cleveland scenderà in campo".

 

Una grandezza evidentemente dimenticata dai nuovi difensori dell'identità dei nativi americani.