Doaa el Ghobashy e Kira Walkenhorst

Contro la retorica delle Olimpiadi e le foto iconiche da giornalista collettivo

Giulia Pompili
Le ginnaste delle due coree unite in un selfie, il beach volley di Egitto contro Germania, burkini contro bikini, la proposta di matrimonio, eccetera: l'ossessione giornalistica dell'immagine simbolo in questi Giochi olimpici che sembrano fatti apposta per Instagram.

Roma. E’ un’ossessione decisamente moderna, quella della fotografia iconica. L’immagine simbolo che sostituisca le parole, perché troppo difficile da spiegare in centoquaranta caratteri. E sulle didascalie, poi, cadono quasi tutti, allora tanto meglio far parlare solo le immagini. I Giochi olimpici sono l’Eldorado di questa ossessione. Una manifestazione fatta apposta per Instagram. Fateci caso: i lunghi ed epici racconti sulle Olimpiadi non esistono più. Esistono però le fotografie, piazzate in pagina con titoli definitivi: c’è la foto simbolo, la foto che ha commosso il web, la foto che “diventa subito virale”, qualunque cosa significhi. Alle Olimpiadi c’è sempre un sacco di roba da fotografare e Rio non è da meno. Per esempio in questi giorni avete visto un po’ dappertutto l’immagine della proposta di matrimonio della rugbista brasiliana Isadora Cerullo alla sua compagna, la volontaria Marjorie Enya. “Love wins”. Auguri. Ci sono poi intere gallery sugli atleti che piangono durante gli inni nazionali, i volti della squadra dei Rifugiati, Michael Phelps con le macchie rosse sulla schiena. E però, come sempre, le immagini iconiche tradiscono il punto di vista parziale del fotografo collettivo (o dell’occhio di chi guarda, naturalmente).

 


Isadora Cerullo e Marjorie Enya


 

Prendiamo le atlete Hong Un-jong e Lee Eun-Ju che si scattano un selfie, “uno scatto storico”, l’hanno definito, perché la prima indossa la tuta della nazionale nordcoreana e l’altra quella sudcoreana. A scattare, manco a dirlo, è Eun-ju, la ginnasta del Sud, che sfoggia una cover dello smartphone a forma di orsacchiotto. L’altra si presta, con un sorriso stentato. In pratica, l’immagine dei due paesi in guerra da 66 anni “riuniti dallo sport”. Ma siamo proprio sicuri di volerci lanciare in un tale esercizio semplificatorio?

 


Hong Un-jong e Lee Eun-Ju


 

Hong Un-jong ha vinto l’oro alle Olimpiadi del 2008 nel volteggio, poi è stata esclusa dalle competizioni perché Pyongyang la costringe (ancora?) a mentire sulla sua età e sulla sua gemella (che forse è lei, ma ancora non si è capito bene). Lo sport, in certi casi, per i nordcoreani è l’unico modo per uscire, sempre controllati H24, ma con uno illusorio senso di libertà. E’ quel tipo di libertà che costa tantissimo, una vita intera. Agli sportivi che raggiungono dei risultati, Pyongyang concede dei benefit come un appartamento, la convivenza con la famiglia. E soprattutto, se si è delle star da utilizzare in modo propagandistico, allora si può chiudere un occhio per un selfie (nel 2014 la Hong venne fotografata mentre abbracciava la sua collega americana). In altre circostanze, la sudcoreana avrebbe dovuto spiegare al ministero dell’Unificazione di Seul il motivo della fotografia (debriefing obbligatorio per chiunque entri in contatto con cittadini del Nord), la nordcoreana sarebbe stata accusata di lavorare per chissà chi.  

 

Ma in questo clima olimpionico da tout est pardonné, in cui la retorica copre come un coltre le tensioni internazionali, i dissidi politici, i pregiudizi, il terrorismo, perfino le sanzioni, è uscita fuori un’altra immagine, altrettanto eloquente. Siamo al beach volley, la partita tra Egitto e Germania: la fotografia mostra sotto rete Doaa el Ghobashy coperta dall’hijab, e la tedesca Kira Walkenhorst in bikini. La foto è il simbolo del multiculturalismo e dell’integrazione olimpica, scrive il giornalista collettivo. E’ stata diffusa pure sui canali arabi. Naturalmente privata della sua parte più occidentale, cioè con la Walkenhorst irriconoscibile, sfumata. Cancellata, come lo spirito olimpico tanto invocato finora, lo stesso che ha instillato il dubbio del doping ovunque, dalle piscine ai campi da tennis fino alle strade battute dai maratoneti e insegna agli atleti a non accettare più una sconfitta, che è arrivata solo perché l’altro “era drogato”, “pisciava viola”.

 

E un dito medio alla sportività (compresa la nostra: Fabio Basile, duecentesima medaglia d’oro italiana e campione di judo, terminata la finale non ha fatto il rei, il saluto all’avversario. Roba che nel judo tradizionale saresti squalificato a vita, altro che eroe). E insomma, in tutto questo affresco d’ipocrisia e buoni sentimenti (ma lo sport è sangue e merda, e le Olimpiadi eugenetica pura), vi stupireste se vi dicessero che non esistono fotografie della delegazione libanese, quando ha impedito a quella israeliana di salire sul pullman che avrebbe dovuto portare tutti alla cerimonia d’apertura di Rio 2016? Come sempre, l’occhio vede solo ciò che vuol vedere.

Di più su questi argomenti:
  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.