Vincenzo Nibali, vincitore della scorsa edizione del Tour de France, parte oggi con il numero 1. Tra i suoi successi, la Vuelta nel 2010 e il Giro d’Italia nel 2013

Tour d'Italie

Giovanni Battistuzzi
Oggi parte la corsa francese. Nibali punta al raddoppio, impresa che tra gli italiani è riuscita solo a Bottecchia un secolo fa. Da Utrecht, in Olanda, a Parigi  la lotta sarà a quattro: a insidiare l’italiano ci saranno Froome, Contador e Quintana

Quattro, come i punti cardinali, nord sud est ovest, indicazioni di cammino. Serviranno: prima ovest, poi sud, la svolta verso est, il ritorno a nord, questa la rotta tracciata. Quattro come i tre moschettieri più D’Artagnan, Francia ma letteraria. Non in sella a un cavallo, ma a una bicicletta. Non Athos, Porthos e compagnia, ma Chris Froome, Alberto Contador, Nairo Quintana, i moschettieri, e Vincenzo Nibali il protagonista, numero uno per meriti sul campo ottenuti dodici mesi fa, maglia gialla da Sherwood a Parigi. Come fosse unione di eroi letterari: con fughe e duelli, freccia e fioretto, azzurro e giallo, duetti e assolo. Nuova missione da oggi, sulle strade d’Olanda, perché da quelle partirà la centoduesima edizione del Tour de France.
Oltralpe ci si veste di giallo. Ciclismo, ossia scatti e pedalate, su e giù per strade e per Francia, un racconto di vincitori, sconfitti, numeri. Cinque gli arrivi in salita, come cinque sono i Tour nel palmares di chi punta alla vittoria finale, quattro i candidati allo scettro, tre le settimane di corsa, due, ossia doppietta, l’obiettivo di Contador e Nibali, Giro-Tour per il primo, secondo alloro per l’italiano, uno il vincitore. Il resto è Utrecht il principio, Parigi la conclusione, in mezzo un viaggio di ventuno tappe. Percorso duro, salite e montagne, poca cronometro, pianura sì, quella francese, la solita, un continuo saliscendi che nemmeno te ne accorgi, ma che mai come quest’anno Francia non sembra: pensionate le traversate pianeggianti in attesa dello sprint, gli organizzatori hanno creato un tracciato vallonato, aperto al colpo di mano, più Giro che Tour, moderno, direbbero, spettacolare sicuramente.

 

Utrecht, il via alle 14: 13,8 chilometri contro il tempo. Da lì tre settimane di lotta direzione Parigi. In mezzo vento e sprint olandesi, côtes e muri belgi, pavé e strade, all’inizio rettilinee, in seguito tortuose, pendenti verso le cime montane, prima i Pirenei, poi le Alpi, tra loro il Massiccio centrale. Asfalto che sarà caccia, lotta, distacchi, pedalata dopo pedalata, che sarà scenario di sfide, di gregari in testa a prender vento, di capitani a ruota pronti a tentare il colpo giusto al momento giusto, lì dove la strada sale, dove i minuti si guadagnano e si perdono, dove la classifica si muove, si allunga e la maglia gialla si trasforma da sogno in esaltazione o martirio.

 

 

Vincenzo Nibali prenderà il via per ultimo come si confà al numero uno, a chi ha vinto la precedente edizione della corsa a tappe francese. Un anno fa il grande successo, lo Squalo sul gradino più alto del podio, maglia gialla in Avenue des Champs-Elysées, davanti all’Arc de Triomphe. Vincenzo Nibali prenderà il via per ultimo, con in bacheca una nuova maglia tricolore, dopo l’assolo di una settimana fa verso la basilica di Superga che domina Torino. Una storia che si ripete, identico avvicinamento fatto di lunghi allenamenti, ritiri in altura per preparare gambe e testa, pochi risultati di rilievo, qualche attacco e nulla più. L’obiettivo è il Tour, vincere prima è inutile, il massimo della forza deve essere espressa in quelle tre settimane, questo almeno lo Slongo-pensiero, suo preparatore e mentore. Vincenzo Nibali partirà per ultimo per tentare di ritornare primo, per nascondere il tricolore della sua maglia sotto il giallo del primato, per ripercorrere il percorso del solo italiano prima di lui a essere riuscito a vincere due edizioni consecutive, Ottavio Bottecchia.

 


Il podio del Tour 2014: Nibali al centro tra i francesi Peraud e Pinot


 

Anni Venti del Novecento come gli anni Dieci odierni, quasi un secolo di differenza, due storie diversissime, ma che inaspettatamente si intersecano, si sovrappongono, potrebbero collimare. Storia di due duri del pedale, di due non predestinati, ma di uomini che con il lavoro hanno affinato un talento superiore, ma grezzo, carbone trasformatosi in diamante, tenacia divenuta vittoria, periferia che si fa centro, e che centro, quello dell’impero ciclistico, quello del Tour de France, la corsa a tappe più importante e prestigiosa al mondo. Tavio e Vincenzo, frutti acerbi maturati in campioni a forza di chilometri in bicicletta, di vittorie mancate, di fughe andate a vuoto.

 

Tavio da San Martino di Colle Umberto, provincia di Treviso, ora culla di talenti a due ruote, allora provincia povera e dimenticata. Vincenzo da Messina, ancor oggi marginalità ciclistica italiana, luogo da cui andarsene per poter provare a percorrere la strada che porta al professionismo. Similitudini di stirpe, di origini, di razza, quella a pedali, quella dei forzati della strada, per dirla con le parole di Albert Londres. Stirpe, la stessa, quella dei campioni, l’unica che può tenere assieme uomini di epoche troppo distanti per poterle mettere a confronto, l’unica che può superare quasi un secolo, che può avvicinare due atleti diversi, ma con la stessa capacità di andare forte ovunque, di involarsi quando la strada sale, di planare quando scende, di esaltarsi quando le avversità del percorso mettono alla prova la resistenza del fisico e dei nervi.

 


Vincenzo Nibali sul pavé durante la scorsa edizione della corsa francese


 

Tavio il primo e Vincenzo che potrebbe ripercorrerne i successi: in mezzo il Tour, quella corsa che rese Bottecchia Botescià, amor di Francia nonostante il passaporto, perché quello conta poco se è il Tour a scoprirti, a renderti uomo prima che atleta, a elevarti a vincente, a sottolineare il tuo stato di reietto in patria. Vincenzo che proprio per questo Tavio non sarà mai, perché ben voluto al di qua delle Alpi, perché vincitore in rosa prima che in giallo, perché amato, ricercato, applaudito a casa sua.

 

[**Video_box_2**]Anno 1923, Tavio chiude il Giro al quinto posto, primo tra gli isolati, i senza squadra, quelli che devono badare a se stessi sia in corsa sia fuori, alla ricerca di pensioni dove dormire e posti dove mangiare. Ha 27 anni, tanti per essere al primo anno di professionismo, prima la guerra e una carriera da muratore tra il Veneto e Clermont-Ferrand perché il pane è poco e tante le bocche da sfamare, perché la bicicletta è buona soprattutto per raggiungere il posto di lavoro, al massimo per farci qualche uscita la domenica, perché pedalando cresce la passione e sognare di essere Ganna, Gerbi o Galletti non costa nulla. Tavio va forte in quelle uscite, sale sul Puy de Dôme, il vulcano che sovrasta il paesino francese, tiene testa a dilettanti e professionisti e quando torna a casa lo convincono a correre per davvero.

 

Fatica, tenta imprese, molte volte perde, crolla negli ultimi chilometri per il troppo sforzo, ogni tanto vince e lo fa sempre nelle gare più importanti, quelle più ricche di montepremi, perché per questo corre il veneto, per i soldi, per “schei”, “perché pedalare è fatica, come fare il muratore, ma se te ne torni a casa a pancia piena è meglio”, diceva. E allora corre, va a caccia di premi, traguardi volanti e della montagna, qualsiasi cosa, porta a casa tutto e spartisce, intanto continua a lavorare nei cantieri. Lo fa anche dopo quel Giro, lo continuerebbe a fare se non arrivasse Aldo Borrella, giornalista del Petit-Parisien e addetto stampa della squadra francese Automoto, quella dei fratelli Pélissier, i corridori più famosi di Francia, in cerca di gregari per il Tour.
Ottavio si presenta con tanti piazzamenti e nessuna vittoria in Francia, ma con l’assicurazione di Borrella: “Non vi pentirete”. Monsieur Montet, capo dell’Automoto non è convinto, lo vorrebbe rispedire in Italia, si trova davanti un omino “dagli occhi arrossati, dagli abiti logori, dal viso intagliato dalla fatica dal quale spunta il naso, dai baffetti striminziti”, ma il tempo è poco e decide comunque di ingaggiarlo, “speriamo in bene, speriamo che finisca almeno due tappe”, dice ai suoi colleghi. Lo accolgono con scetticismo. Un uomo così sciatto e dimesso non può convincere. Il tempo però gioca a suo favore, tanto da divenire “la nostra migliore scoperta, il vanto di un’intera carriera”, dirà Monsiuer Pierrard, direttore sportivo dell’Automoto, dieci anni dopo.

 


Ottavio Bottecchia dopo la vittoria del Tour del 1924


 

Perché Tavio è segaligno e sciupato ma in bici va come un treno: non solo non si ritira dopo due tappe, ma al termine della seconda è in maglia gialla dopo aver trionfato in solitaria a Cherbourg. Quel Tour del 1923 lo vedrà primo per sei giorni, lo vedrà protagonista sui Pirenei, sprofondare sulle Alpi, una crisi sull’Izoard un arrancare verso l’arrivo di Briançon. Maglia gialla al capitano, Henri Pélissier, Bottecchia terzo a quasi un quarto d’ora. Pélissier primo a Parigi, Tavio secondo, battuto, certo, ma applaudito come un francese, osannato da tifosi e stampa, tanto che il patron del Tour, Henri Desgrange, in un editoriale sull’Auto ne esalta il rendimento: “Bottecchia è la rivelazione più sensazionale che ci abbia dato il Giro di Francia. Ecco un uomo che, senza conoscere una parola della nostra lingua, in paese straniero, dimostra di essere un vero campione. (…) Egli è tanto veloce all’arrivo quanto coraggioso e tenace in montagna”.

 

Tavio stupisce la Francia, viene esaltato, riconosciuto per strada, gode di una fama che non raggiungerà mai in Italia. Oltralpe resta per mesi, si muove tra un velodromo e l’altro, per le ricche riunioni su pista: lui corre, vince, accumula “schei” e tornato in Italia costruisce una casa per lui e una per la sua famiglia. Intanto pensa e si prepara al Tour successivo.

 

 

Nel 1924 parte ancora come scudiero di Henri Pélissier, ma questa volta Monsieur Pierrard non dà ordini gerarchici all’italiano, “fai la tua corsa, se Henri sarà davanti a te lavorerai per lui”. La gente a bordo strada applaude Pélissier, ma urla Botescià: troppo snob e sofisticato il primo, troppo amato dall’alta borghesia per entusiasmare, troppo diverso da loro che invece vedono nel muratore veneto le loro stesse mani callose, i loro stessi occhi, la loro stessa voglia di redenzione. Tavio parte come gregario, ma già all’arrivo di Le Havre, prima tappa, sprinta, vince e indossa la maglia gialla, maglia che porterà per quindici tappe sino a Parigi; maglia che esalterà con due imprese sui Pirenei, la prima a Luchon, quando dopo 200 chilometri di fuga solitaria su Aubisque, Aspin e Peyresourde arriverà al traguardo sedici minuti prima del secondo, “sfigurato dalla fatica, con gambe, braccia e faccia ricoperte di sangue e sudore, un corpo ferito dalle pietre della discesa dell’Aubisque, ma che ha lottato e vinto perché il Tour vale tutto questo”; che difenderà sulle Alpi; che sublimerà battendo tutti gli avversari davanti all’Arc de Triomphe nell’ultima frazione, applaudito da una folla “che ha occhi e giubilo solo per lui, italiano di Francia, più francese dei francesi”, scrive l’Echo des Sports, perché “vi sono stati degli anni in cui il vincitore del Tour lasciava posto al dubbio, sia perché aveva beneficiato di sventure toccate ad altri, sia perché non strappava la vittoria che con un leggero vantaggio. Niente di tutto ciò quest’anno. Bottecchia è stato alla testa della classifica generale da un capo all’altro del Giro di Francia; ha condotto la sua corsa da maestro”.

 

Un assolo che ripeterà l’anno successivo, questa volta concedendo al belga Adelin Benoît cinque giorni in testa alla classifica prima di riprendersi la maglia gialla a Bayonne con un attacco in pianura per poi aumentare il distacco su tutti gli altri sui suoi amati Pirenei. Prima doppietta azzurra in Francia, prima e unica in due edizioni consecutive. Tavio da San Martino di Colle Umberto “di gran lunga il campione più completo sia per doti fisiche che per capacità tattiche, che ha vinto dando l’impressione di non forzare e talvolta di cedere la vittoria a Buysse che lo aveva aiutato”, scrive l’Echo des Sports il 20 luglio 1925. Tavio che riuscì “dove anche Coppi fallì, che cerca ancora un’erede, non per classe, perché tanti ne sono passati e Coppi in questa è maestro, ma per determinazione e tenacia”, scrisse Emilio Violanti sulle pagine della Gazzetta nel luglio del 1952; Tavio che potrebbe trovare erede in queste tre settimane che dall’Olanda porteranno a Parigi.

 

Tocca a Nibali mettere sulle strade di Francia quella determinazione e tenacia che ne hanno accompagnato la carriera, che lo hanno portato a vincere tutte e tre le più grandi corse a tappe del ciclismo, che lo hanno fatto amare in Italia e ammirare Oltralpe, in modo da non lasciare “posto al dubbio” di aver “beneficiato di sventure toccate ad altri”, come successo l’anno scorso, quando sia Froome che Contador salutarono anzitempo la Grand Boucle.

 

Allez Nibalì, Botescià ti aspetta.