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Se non ti piace il presepio, allora non lo fare
Chi può sentirsi offeso da una mangiatoia che non smette di incantare e scaldare il cuore? La magia della Natività e noi, presi da zuffe ideologiche e ormai insensibili di fronte all’evento più sconvolgente della storia
Caro Babbo Natale, tu che sei la figura simbolo di una tradizione oramai globalizzata e solo blandamente identitaria. Tu che sì, forse San Nicola potrebbe essere il tuo antenato più antico, o forse vieni dalla Lapponia con le tue slitte che volano e con quel completo rosso: insomma le tue radici non sono così limpide. Tu che ti chiami Babbo Natale ma anche Santa Claus. Tu che sei duttile e un po’ cosmopolita e sei riuscito a sciogliere persino il cuore del crudele Scrooge nello straziante canto natalizio di Dickens. Tu che sei così mercuriale e leggero, sebbene corpulento, e sembri il perfetto esemplare di un brand celeberrimo, barba bianca e Coca Cola. Solo tu, insomma, puoi farci un regalo, rallegrarci con un dono: fai che almeno per un anno possiamo risparmiarci le baruffe sempre più grottesche sul presepio, disarma i due eserciti che si azzuffano tutti gli anni in modo stucchevole su quella iconica (si dice sempre iconica) mangiatoia con la stella cometa e il bue e l’asinello. Cerca di spiegare con la tua bonomia che non si vuole offendere nessuno, che la guerra di religione sulle statuine dei pastorelli con le loro pecorelle nei pressi della grotta è ridicola, che le consuetudini restano innocue se non hanno una valenza esplicitamente aggressiva. Che non tutto deve essere spiegato, giustificato, concettualizzato, esaminato, passato sotto il radar dell’attualità. Fare il presepio scalda il cuore. Perché qualcuno se ne dovrebbe sentire escluso, offeso, cacciato ai margini?
“Te piace ‘o presepio?”. No? Se non ti piace allora non lo fare. Ma lascia che il povero Luca Cupiello, sul cui capo tra l’altro sta per abbattersi una tragedia che renderà il suo Natale un incubo, allestisca la sua scena attorno alla “capanna”, con un figlio inetto e sfaccendato, e una famiglia che sta per esplodere. Così dice Eduardo De Filippo: “Capanna”. Rifugio. Riparo. Tepore. Che male c’è? Siamo una società di “cristiani ipocredenti”, secondo la severa definizione di Camillo Langone. E il presepio, intrisi come siamo di secolarizzazione e figli della desacralizzazione, non lo veneriamo più con devozione (e io per primo), davvero non siamo travolti e conturbati da uno degli eventi più sconvolgenti della storia, la divinità che si fa umana in una grotta di Betlemme. Perciò è grottesco il generale Vannacci che per paura dei cattivi si è fatto un presepio portatile da chiudere dentro lo zaino ed esibirlo come vessillo. O la nuova giunta comunale di Genova, stavolta nel campo opposto della solita bega, che il presepe lo vuole nascondere, non sia mai dovesse apparire ed essere interpretato come un’ostentazione che ferisce gli islamici presenti nelle transumanze dei poveri della Terra: i benvenuti, secondo la neovulgata, che ci pagheranno le pensioni nel nostro mesto inverno demografico.
Lasciate in pace il presepe, così intimamente connesso al nostro paesaggio sociale e antropologico che magari incuriosirà, o addirittura emozionerà quei nuovi arrivati che onorano un altro Dio con un altro nome. E del resto che male fanno le facciate delle chiese disseminate in modo così capillare nelle nostre contrade, le cupole delle basiliche, le mille abbazie, i mille conventi, i tanti santuari che costellano il patrimonio nazionale, le pitture e le vetrate istoriate, così belle da far dire a Benedetto Croce che era davvero difficile in Italia non sentirsi un po’ cristiani anche senza fede, che addirittura “non possiamo non dirci cristiani”, soprattutto se molti cristiani, come ero io, non lo sono più. Fa tanto male, è tanto offensivo, arrogante, poco “inclusivo” (la parola che se non la declami, diventi il nuovo portatore sano di blasfemia), quello splendore dell’affresco di Giotto che ha per tema la Natività nella Cappella degli Scrovegni a Padova, compreso nel ciclo delle Storie di Gesù, nei primi del Trecento? Poco “inclusiva” anche la Natività giottesca leggermente diversa dal canone iconografico che si imporrà di lì a poco, una grotta dove Gesù è posato su un letto a baldacchino ma a struttura lignea, molte caprette insieme al duo bue&asinello; Maria sdraiata accanto al bambino, e Giuseppe un po’ più in basso, per carità, pur sempre con l’aureola che gli illumina il capo, ma con un atteggiamento un po’ risentito, come si sentisse escluso e non proprio protagonista, e umanamente si capisce malgrado la santità, di quella storia salvifica? Adesso, poi, hanno votato all’unanimità la reintegrazione del giorno di San Francesco come festa nazionale: tutti insieme, destra e sinistra.
Certo, è successo perché lo hanno ridotto a santino ecologista, un Greta ante litteram, ma della prima Greta, perché Greta è come Picasso con i colori, ha diverse fasi: la prima come la Cassandra della fine del mondo, la seconda come sacerdotessa dell’odio contro Israele, la terza come sostenitrice del salario minimo. Un San Francesco di tutti e di tutte. Ma San Francesco si può legittimamente definire come l’inventore del presepe moderno. Fu lui a Greccio (così pericolosamente o significativamente vicino a “greppio”, “greppia”, “mangiatoia”), ora diventato santuario e meta obbligata dei devoti di tutto il mondo, a perpetuare il ricordo della Natività fissandone il canone giunto fino ai nostri giorni con un presepe vivente, una mangiatoia come quella descritta dai Vangeli (o da uno in particolare) con bambinello, Maria e Giuseppe, pecore e pastori, perfetta fusione di presenza divina, umanità umile e povera e natura non ancora sotto minaccia. E allora, poteva il San Francesco tanto amato concepire e realizzare qualcosa che suonasse come uno squillo di guerra contro altre religioni, e proprio all’indomani di un suo storico e periglioso viaggio in Terra Santa?
Che poi l’ostilità bellicosa verso il presepio è certo il frutto di un fondamentalismo islamista che vorrebbe censurare persino Dante per il suo impertinente accenno a Maometto. Ma la benzina ideologica, l’impalcatura emotiva e concettuale woke (come al solito) che fa del presepio un simbolo da abbattere è soprattutto di matrice autoctona, il frutto di rancori aspri e mai sopiti di figli di una tradizione familiare e sociale (li conosco bene, ci conosciamo bene) vissuta coma una soffocante gabbia infantile e adolescenziale, il ricordo andato a male di sacrestie e catechismi, collegi e confessionali, quaresime e scuole cattoliche, preti e suore, tonache e incenso, lo stesso veleno che agita i cuori risentiti degli “sbattezzatori” e che ne fa permanentemente dei potenziali “de-presepizzatori”. Eppure basterebbe inoltrarsi senza pregiudizi e smorfie di rifiuto nelle pagine di un libro bellissimo del 2018 come “Il Presepio” di Maurizio Bettini (Einaudi) per capire quanto il presepio (o presepe, l’Accademia della Crusca certifica che si tratta di possibilità intercambiabili) sia parte così decisiva di una “memoria culturale” che vive di sovrapposizioni, prestiti, rimandi ad altri contesti antropologici. Dove affiorano il richiamo della nascita dei “bambini divini” nella mitologia greca (e pure di Romolo e Remo nella cesta ai bordi di un fiume), le tracce degli affreschi nelle catacombe romane, l’allusione a un passo di Isaia nel Vecchio Testamento: “Il bue riconosce il suo proprietario e l’asino la mangiatoia del suo padrone!”, fino alla raffigurazione dei Magi in un mosaico di Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna. Un catechismo senza parole e fatto di immagini, come nelle pitture e nelle statue che hanno decorato le chiese, che oramai hanno assunto un valore autonomo di bellezza e di ammirazione, a prescindere da ogni vincolo dottrinario. E Bettini insiste anche sull’atmosfera vagamente “fiabesca” della natura e dei personaggi che circondano la scena della Natività così come ci è stata tramandata.
Ed è questo tratto fiabesco che rimanda alla dimensione dell’infanzia e che ci ha fatto affezionare al presepe. Con Gabriele D’Annunzio, certo, che nel “Presepio (alla nonna)” (ha voluto specificare “alla nonna”, per non farsi mancare niente) si incantava da bambino certo che “i sogni m’arrideran soavi”. Ma anche alcuni scrittori e artisti tutt’altro che inclini alle lacrime nostalgiche e alle sdolcinatezze kitsch del cuore hanno smussato le spigolosità del loro abito intellettuale e si sono arresi alla “memoria culturale” rappresentata dal presepe. Giorgio Manganelli ha affidato alle note di un libro che Adelphi ha pubblicato con il titolo “Il Presepio” quell’emozione infantile dell’atmosfera natalizia che “secerne da sé uno spettacolo, un paesaggio, i personaggi, le luminarie, le musiche” e che acquista forza nei “personaggi” propri del presepio: “Un sodale della Madre, del Padre, del Pastore uno, del Pastore due, della Pastorella, della Vecchietta, del Ruscello, del Bue, dell’Asino, e di quant’altri vorrà accorrere alla celebrazione dell’inizio del Significato”. E pure Emanuele Luzzati, artista e disegnatore, che nel cuore degli anni Novanta ha costruito a Torino il suo particolare presepe dell’immaginazione: “Immagino infatti la stazione di Porta Nuova illuminata come un palazzo orientale che fa da sfondo al Presepio”. E così via. Sempre infanzia, fiabesco, fondali della memoria.
Già, dicono, ma i nuovi arrivati non possono avere nostalgia di un passato che non hanno vissuto. Vero, allora a rigor di logica perché ammannirgli a scuola la Divina Commedia e i Promessi Sposi, frutto di una cultura tanto diversa, o la storia del Risorgimento (che gli importa?) o l’inno di Mameli con “Iddio la creò”? E perché devo rinunciare al ricordo alla meticolosa preparazione del presepe a casa mia, con mio padre che con le mani non sapeva fare niente ma voleva essere sempre lui a sistemare la grotta, a spiegazzare la carta blu con le stelle per farne un bel cielo adeguato al momento, a modellare la carta marroncina e verdina, qualcosa di simile ai colori delle divise militari, sulla forma (presunta) dei Monti della Giudea che circondavano Betlemme? Per poi mettere la carta stagnola argentata per fare il fiumiciattolo sovrastato da un ponticello, peraltro un po’ pericolante, dove andavano ad abbeverarsi le pecorelle che con il passare degli anni non invecchiavano. Come la lavandaia sorridente, la statuina di un pastore munito di zampogna, un altro pastore giovane perennemente sdraiato e fancazzista. E tutt’intorno lucine suggestive che la sera facevano ancora più impressione. E sopra la grotta due angeli giulivi a tenere una specie di striscione con su scritto “Alleluja”. E dentro la grotta con muschio e paglia accuratamente sistemate per rendere gradevole il terreno su cui posare il bambinello, il bue e l’asinello, la Madonna in trepidazione con una tunica azzurra, e San Giuseppe che guarda rapito il piccolo divino che lo ha adottato come padre nel suo percorso terreno lungo 33 anni. Il problema era che il presepe veniva allestito più o meno attorno alla metà di dicembre, e per almeno una decina di giorni, fino al fatidico 25, San Giuseppe contemplava il vuoto e anche Maria, e il bue e l’asinello soffiavano calore sul nulla di un giaciglio di paglia senza l’attesissimo Ospite. E io che non sapevo tenermi a freno in un’attesa lunghissima ed esasperante e poi, quando la notte di Natale il bambino arrivava, mi domandavo come facesse con quel gelo a sopravvivere una creaturina a torso nudo e solo un pannolino a coprirlo, oltre al respiro del bue e dell’asinello. E non smetteva di insospettirmi un altro incomprensibile dettaglio: l’arrivo in ritardo di Melchiorre, Gaspare e Baldassarre, i tre Re Magi che dall’oriente, guidate da una brillante stella cometa, portavano oro, incenso e mirra (vietate battute sulla mirra) in onore della nuova divinità, tradendo il patto con Erode che li aveva arruolati come spie per indicargli l’indirizzo preciso in cui aveva aperto gli occhi il bimbo pericoloso. Ogni giorno, fino alla vigilia dell’Epifania (quella che oggi ipocredenti e secolarizzati chiamiamo Befana), vedevo i tre che avanzavano piano piano su uno scaffale nei paraggi del presepe, e mi era vietato concedere loro una spintarella per velocizzare la loro marcia verso la mangiatoia.
Che male c’è? Dov’è l’offesa, l’arroganza in quell’idillio arcadico? Che poi la tradizione si è diffusa e articolata in mille tradizioni locali, come ben sanno a Napoli dove ogni anno torreggiano le statuine di Maradona e dei cantanti famosi e dei politici più in vista con i turisti incantati da tanto pittoresco. In Catalogna nel presepe hanno addirittura inserito una statuina del folklore locale detto il “Caganer”, magari un po’ lontano dalla grotta, ma sempre in posizione accovacciata e con il deretano scoperto e favore dell’osservatore. Più ipocredenti di così. Ma basta con le polemiche, le intimazioni, il bellicismo antipresepesco e pure i generali difensori della fede e crociati dell’identità intoccabile. “Te piace ‘o presepe?”. Sì. Me piace.