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la polemica

Proibire i social è inutile. La vera sfida è educativa e culturale

Francesco Filini

La scorciatoia del divieto ignora l’essenziale: senza responsabilità delle famiglie e vigilanza delle piattaforme, nessuna norma può sostituire l’educazione digitale

Alle porte del 2026, l’Australia vieta ai minori di 16 anni l’utilizzo dei social. C’è chi esulta perché un paese ha approvato una misura tanto radicale e chi, come il sottoscritto, si interroga sulla sua reale efficacia. E’ indubbio che il tema della protezione dei più giovani online sia impellente, ma questo approccio potrebbe non essere la strada giusta.

I social sono senz’altro un contenitore di criticità come bullismo, manipolazione e disinformazione. Ma queste problematiche non sono esclusive del mondo digitale. Anche in quello reale, nei contesti abitualmente frequentati dai più giovani, esistono rischi analoghi. Eppure, nessuno pensa di vietare loro l’ingresso in palestra o al parco.

Perché, allora, questa logica manichea dovrebbe essere applicata ai social? Il divieto australiano, pur nascendo da buone intenzioni, rischia di non risolvere il problema, ma di spostarlo altrove.

Infatti, come ogni genitore sa, gli adolescenti possono agevolmente aggirarlo. Possono usare una Vpn, creare un account falso o continuare a pubblicare gli stessi contenuti su WhatsApp o YouTube.

Vogliamo davvero impedire l’uso di WhatsApp, uno strumento fondamentale per mantenere il contatto con i propri figli durante la giornata? E che dire di YouTube, che ormai è diventato una risorsa anche per lo studio e l’approfondimento? In questi casi, il divieto non solo sarebbe inefficace ma anche inutile e deleterio.

In Italia esistono già restrizioni sull’età per l’utilizzo di alcune app: gli store digitali vietano il download dei social ai minori di 13 anni. Spesso però capita che siano gli stessi genitori a eludere queste restrizioni, permettendo ai propri figli di utilizzare piattaforme che non dovrebbero frequentare. Il punto cruciale è quindi la capacità delle famiglie di educare i ragazzi all’uso consapevole delle tecnologie.

I social non sono solo un luogo di rischio, ma anche un potente strumento di accesso alle informazioni, di partecipazione alla vita pubblica e politica, di aggiornamento costante su ciò che accade nel mondo.

In un’epoca in cui l’informazione è sempre più digitale, limitare l’accesso a questi strumenti rischia di compromettere il diritto dei giovani a essere cittadini informati. La vera sfida, allora, non è impedire l’accesso alle piattaforme, ma fare in modo che questo accesso sia sicuro e consapevole.

C’è poi un aspetto critico: se si decidesse di adottare questo divieto normativo, le piattaforme, per adeguarsi, introdurrebbero dei sistemi di verifica dell’età che potrebbero comportare la raccolta di dati sensibili. Non solo dei minori, ma di chiunque voglia avere un account su un qualsiasi social.

Questo rappresenterebbe, in primis, un problema di privacy. E soprattutto sarebbe anche una grossa opportunità per le piattaforme di raccogliere informazioni personali su tutti gli utenti.

Un’operazione che, anziché tutelare i minori, potrebbe trasformarsi in un regalo alle multinazionali tecnologiche, che avrebbero accesso a dati sensibili senza alcuna vera garanzia di protezione.

La questione non è se i social siano “buoni” o “cattivi”, ma come utilizzarli in modo sano. Nel contesto attuale, la responsabilità di monitorare l’utilizzo che se ne fa deve essere dei genitori. Le restrizioni sull’età possono offrire un primo strumento di controllo, ma la vera protezione arriva dando una risposta culturale al problema.

Allo stesso tempo, però, le piattaforme devono assumersi la responsabilità di monitorare attivamente i contenuti dannosi, rimuovendoli se necessario.

Il divieto imposto dall’Australia è una soluzione apparentemente semplice che però non risolve nulla e non possiamo illuderci che basti a tutelare i nostri figli. Abbiamo imparato che i problemi complessi non si risolvono con una normativa, lo abbiamo visto con la povertà che nessuno ha mai abolito o col tema dei salari che qualcuno vorrebbe aumentare con la forza della legge. La protezione digitale è un processo complesso che deve coinvolgere famiglie, scuole e istituzioni.

La vera sfida è quindi quella educativa. Educare etimologicamente significa “tirar fuori”, “guidare”. In poche parole, insegnare ai nostri figli che si può navigare nel mare di internet in sicurezza. Consapevoli dei suoi rischi e delle sue opportunità. Proprio come accade nella vita reale.

   

Francesco Filini, parlamentare di FdI

 

 

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