Ansa

denatalità e invecchiamento

Cosa può imparare l'Italia dalla lezione tedesca sulle pensioni

Giuliano Cazzola

L’invecchiamento della popolazione e la bassa natalità stanno destabilizzando il sistema pensionistico e il mercato del lavoro, creando un crescente squilibrio tra lavoratori attivi e pensionati

C’è un fantasma che si aggira per l’Europa: l’invecchiamento della popolazione che procede inesorabile e – accompagnandosi alla denatalità – pone problemi nel mercato del lavoro sul versante della offerta ed aggiungendosi al trend in salita dell’attesa di vita, destabilizza i sistemi pensionistici, pensati al tempo della società industriale, che, al pari di una stella spenta, continuano a proiettare lampi di luce sulla società dei servizi. Soprattutto in Italia ci troviamo in una lunga fase di transizione in cui sono arrivati, arrivano e arriveranno ancora all’appuntamento con la quiescenza e quindi a riscuotere l’assegno generazioni di lavoratori appartenenti a classi numerose (nel 1964 nacquero in Italia 1,1 milioni di bambini), che sono entrate presto nel mercato del lavoro e, in forza delle caratteristiche dell’economia, hanno avuto lunghe storie lavorative stabili e continuative che hanno consentito loro di poter accedere al pensionamento anticipato da anziani/giovani e di rimanerci per un lungo arco di tempo a carico (essendo il finanziamento del sistema a ripartizione) di generazioni già minate dalla denatalità secondo un trend in progressivo peggioramento (nel 2024 sono nati meno di 370mila bambini) e con tipologie occupazionali connotate da accessi tardivi e discontinuità nell’impiego.

 

 

In un recente saggio Gian Carlo Blangiardo, autorevole demografo già presidente dell’Istat, ha calcolato che per ogni dieci annualità di contribuzione lavorativa se ne prospettano otto di rendita pensionistica, passando dalla realtà di un “oggi”, in cui ogni (ipotetico) pensionato è mediamente sostenuto da tre (ipotetici) lavoratori, alla visione prospettica di un “domani” (già scritto nei dati dell’oggi), nel quale il tempo trascorso lavorando verrebbe quasi a coincidere con quello vissuto in quiescenza. In Italia c’è una linea del Piave: l’adeguamento automatico periodico (ora biennale) dei requisiti anagrafici e contributivi all’incremento dell’attesa di vita. La norma è ora sotto l’attacco congiunto dell’alleanza Salvini/Landini. E il governo tentenna. L’importanza di questo adeguamento è stata riconfermata di recente dalla Banca d’Italia: “Il meccanismo di indicizzazione dell’età di pensionamento alla longevità fu introdotto per riequilibrare tra le generazioni il rapporto tra il tempo della vita trascorso al lavoro e quello trascorso in pensione; contribuirà nei prossimi anni a limitare la crescita della spesa pensionistica determinata dall’invecchiamento della popolazione. In base alle previsioni della Commissione – prosegue la Banca d’Italia – la normativa in vigore consentirebbe di fermare la crescita dell’incidenza della spesa sul PIL nel 2036, quando raggiungerebbe un picco del 17,3 per cento, per poi ridursi e stabilizzarsi intorno al 13,7 nel 2070’’.

 

 

Se si segue l’incidenza della spesa sul Pil emerge con chiarezza il percorso della transizione: la società industriale manderà in pensione nei prossimi decenni i suoi Cipputi, poi, man mano che il calcolo contributivo andrà a regime - sia pure in un tempo lungo (2070) - l’incidenza della spesa si avvicinerà agli standard europei. La rimozione permanente dei meccanismi di adeguamento comporterebbe, invece, un incremento del rapporto debito / PIL di circa 20 punti percentuali al 2045 e di circa 60 punti percentuali al 2070. Il problema della sostenibilità dei sistemi pensionistici non assilla solo l’Italia. In Francia l’ultimo governo sopravvissuto rimane in apnea grazie alla sospensione della riforma previdenziale voluta da Macron. Come sempre i tedeschi, invece, si fanno riconoscere per testimonianza di saggezza. Anche il governo Merz è alle prese con una legge in materia di pensioni che va al voto del Bundestag in questi giorni. Merz deve rispettare il programma concordato con la Spd dove è previsto di mantenere, almeno fino al 2031, gli importi delle pensioni pari almeno al 48 % dello stipendio mensile medio (in Italia l’importo della pensione media è superiore a quello della retribuzione media).

 

 

I deputati della Giovane Unione della Cdu, temono che questa diventi una soglia da usare anche dopo per un costo aggiuntivo annuo tra gli 11 e i 15,1 miliardi di euro, destinato a ricadere soprattutto sui redditi delle persone più giovani. La Giovane Unione ha 18 deputati, ma la maggioranza dispone solo di 12 voti. Pertanto se venisse meno la disciplina del gruppo il governo sarebbe in difficoltà. Da segnalare, nella riforma, le norme fiscali che incentivano il lavoro dei pensionati proprio per colmare le esigenze di manodopera delle imprese. In Italia, solo il 9,9 % dei pensionati continua a lavorare mentre la media degli altri Paesi dell'Ocse si attesta 22,4%. Anzi, da noi, proprio in nome dell’assunto – smentito dai fatti – che l’anticipo della pensione favorisce il lavoro dei giovani il cumulo tra pensione e reddito da lavoro è fortemente penalizzato.

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