(foto EPA)

c'è chi vi si specchia

Da Rio a Scampia, la periferia che ci piace rimuovere

Antonio Pascale

Il blitz della polizia di Rio de Janeiro contro il Comando Vermelho e il parallelo con la Napoli di un tempo. Studiare il degrado per capirne la complessità e il filo che lo lega al centro delle città

Lo scorso 28 ottobre sono successe due cose, lontane ma vicine. La prima molto seria. A Rio de Janeiro c’è stata una grossa operazione di polizia (la più grande di sempre), concentrata in due favelas, Alemão e Penha, due zone della città controllate da uno dei maggiori cartelli di narcotrafficanti del paese, il Comando Vermelho. Gli scontri sono durati molte ore, il barrio si è trasformato in una zona di guerra, alla fine 138 persone sono state uccise. L’altra cosa, meno seria, riguarda una scia di polemiche partita da Napoli (ma non solo). Sui social si è molto parlato della partecipazione a “Belve” della tiktoker Rita De Crescenzo, che, insomma, è diventata famosa perché è nata e cresciuta in un quartiere difficile, non certo una favela, ovvio,  ma in una zona fino a qualche tempo fa chiusa e ostica, il Pallonetto. Rita De Crescenzo si è fatta un nome negli ultimi anni per delle live su TikTok. Eccentrica com’è, è diventata famosa. Certo, poi, la fama è un concetto relativo, come il tempo. Diciamo che è molto conosciuta in un’estesa area del napoletano. Comunque, è giudicata trash, anche perché storpia l’italiano e secondo alcuni non sarebbe la rappresentante ideale dell’Accademia della Crusca.

Sono due avvenimenti diversi ma quasi uguali, lontani ma vicini. Illustrano bene cosa accade in quello spazio delle città che genericamente e con un po’ di snobismo chiamiamo periferie, ghetti, favelas ecc. Questi spazi si somigliano molto, così come si somigliano i suoi abitanti, possiamo dire che tutte le periferie sono diverse ma tutte, a loro modo, sono uguali.  Questa sensazione l’ho avuta quando, più di 15 anni fa, ospite di Medici senza frontiere, sono stato a Rio de Janeiro,  proprio nel complesso di Alemão. Ebbene, appena entrato, notando alcune dinamiche del quartiere mi sono detto: che fatica inutile, seimila chilometri, ore e ore di volo che ancora ho il fuso addosso, e tutto questo solo per  entrare  in questa favela identica a Scampia. Come se avessi imboccato un corridoio spazio-temporale, che so, un wormhole che mi avesse ritrasportato in alcune periferie napoletane. Ho pensato: potevo starmene a casa, descrivere Scampia o i Quartieri spagnoli e fingere di essere stato al complexo di Alemão. 
Comunque, il complexo di Alemão, come tutte le favelas, si è formato a partire dall’occupazione delle aree collinari (morros). Nel 1897, i soldati che ritornavano dalla cosiddetta Guerra de Canudos (una campagna militare antisecessionista nel nord-est del paese), congedati senza alcun indennizzo, si stabilirono in queste aree collinari. E da qui hanno cominciato a costruire, diciamo dell’alto della collina verso il basso. Nel 1904 l’insediamento contava 100 baracche mentre già nel 1933 il loro numero era salito a 1.500.
 Se ci entrate avrete due sensazioni immediate. La prima: quella di trovarvi nel cosiddetto insieme Q, termine urbanistico che identifica un luogo così pieno e denso che se aggiungete uno spillo è un problema, potreste non avere lo spazio necessario per poggiarlo. La seconda sensazione riguarda la cacofonia, sia sonora che visiva. Vuoi le moto e le macchina, che salendo lungo le ripide strade cambiano marcia o si ingolfano, vuoi le voci variopinte, i bambini con acuti squillanti, le partite di pallone, il vociare diffuso, e aggiungete i colori, tutti molto intensi. Questi ultimi sono così accesi che come sosteneva Wassily Kandinsky nel suo libro “Lo spirituale nell’arte”, generano un effetto centrifugo, sembrano esplodere, dal centro verso i bordi. Insomma il classico turbinio del disordine.
Il disordine, il caos, è l’elemento fondamentale. Perché nelle favelas come il complexo di Alemão quello che conta è la capacità di sopravvivenza. Per sopravvivere devi formare o appartenere a una rete. Vero, questo accade sempre e ovunque, fin dall’alba dei tempi, ma qui le condizioni di vita sono più difficili, quindi vi accorgete subito della complessa rete umana, rumorosissima, impegnatissima. Vero che nel 2008, quando sono andato, il governo aveva avviato un’operazione di pacificazione con il comando, quindi perlomeno potevi entrare nella favela, ma in questo barrio si è vissuto per molto tempo senza acqua, luce, gas, trasporti, scuole, ospedali (difatti Medici senza frontiere aveva fondato e teneva vivo un pronto soccorso e un punto accoglienza, anche psicologico).
 Se nasci lì, devi sopravvivere in condizioni non ideali, dunque, neanche i confini tra legalità e illegalità sono così stabili. Insomma, i cittadini rispondono ad altre regole. Facciamo un esempio? Una delle prime cose che ho notato è stato un palo della luce sul cui filo ad alta tensione erano stati attaccati altri, numerosissimi fili che innervavano alcune case. Era così denso l’intreccio che visto dal basso verso l’alto somigliava a una ragnatela di fili. Naturalmente mi è subito salita la vena poetica e ho pensato che in questi luoghi anche il semplice gesto di alzare gli occhi al cielo, spesso un gesto che rafforza la creatività, è sporcato da una ragnatela di fili. Metafora ottima, così mi ero detto. Che poi ho pure scritto, vantandomene, e leggendo la descrizione in varie presentazioni, finché non ho visto un Ted talk dove il saggista Stewart Brand mostrava un palo simile a quello da me descritto, anzi secondo me era quello. Comunque, Brand raccontava che questi fili servivano anche a illuminare le case dove c’erano bambine che potevano studiare. Ovvio, di certo attaccarsi ai cavi dell’alta tensione e rubarsi la corrente elettrica è un atto illegale, ma il problema era appunto prendere atto della rete intrecciata dove convivono legalità e illegalità e sbrogliarla: portare la rete verso la legalità. Diciamo che questo impegno richiede strumenti più concreti di quelli che io avevo utilizzato con la mia metafora.
Comunque, di fatto, le dinamiche che leggevi nella favela di Rio erano le stesse che notavi se, per esempio, anni fa, entravi nella Sanità. D’accordo, ora è un quartiere napoletano di moda, ma fino agli anni 90 risultava un luogo chiuso e pericoloso e hai voglia di corrente elettrica che si rubavano l’un con l’altro. Negli anni 70-80, anche i Quartieri spagnoli non scherzavano, e va bene che tutta una generazione di reporter ne ha esaltato gli aspetti coloriti e folcloristici, i bassi, le vecchie nonne, le contrabbandiere, gli scugnizzi, il vociare, la musica, le grida da mercato, ma molte di queste persone a metà degli anni 70 erano povere, avevano problemi notevoli si sopravvivenza e soprattutto soffrivano. Si dovevano arrangiare, si organizzavano in una rete, si aiutavano, si proteggevano o cercavano protezione, legalità, illegalità, insomma elementi difficili da valutare con gli standard normalmente usati, anche perché quella rete tendeva a confondere tutto, terra e cielo. 
Tra l’altro, a proposito di rete, cioè di interessi che tutti condividevano, negli anni 70, andava di moda anche una barzelletta che, senza volerlo, descriveva la suddetta  rete. Storiella, tra l’altro, raccontata magistralmente da Walter Chiari. Parlava di un uomo che va a farsi le analisi delle urine e invece del solito contenitore porta un bottiglione, prendendosi anche il rimprovero del medico: ne bastava poco, dice. Poi l’uomo torna nel quartiere con le analisi in mano e grida così che tutti lo possano sentire: stiamo bene tutti quanti. 
Insomma in alcune periferie, un po’ come nella barzelletta, parli con uno e parli con tutti e tutti rispondono a te. Ci vuole poco a finire nella rete o imparare a pescare grazie alla rete. Noi tendiamo a ignorare le periferie, a distaccarcene. Vedi appunto la scia di commenti contro Rita De Crescenzo. Tutti dello stesso tono: lei non rappresenta Napoli, difatti i napoletani si sentivano offesi da una che storpia l’italiano  con un passato complesso e forse non del tutto pulito.  Questi commenti dimostravano solo un’accanita rimozione. Le parti buie, ostiche, dolorose, poco eleganti è meglio nasconderle. Proprio per non confondere una parte col tutto, la tua urina con la mia. Perché la paura culturale che le periferie suscitano in noi è proprio la capacità di questi luoghi di essere così presenti nell’immaginario da diventare invadenti. Finisce che il barrio di Rio De Janeiro descriva tutto il Brasile, e Rita De Crescenzo rappresenti Napoli. E non solo, anche tutte le periferie del mondo. Quindi viene naturale dire: io non sono così, io non parlo in dialetto, io i congiuntivi li conosco e ho la fedina penale pulita. Tuttavia più che eleggere il rappresentante di questa o quella città, sarebbe più proficuo descrivere con attenzione quelle parti di città e i cittadini che vi abitano proprio per capire i fili che legano noi a loro e viceversa
Il fatto è che alle periferie siamo legati, eccome. A parte che sono spazi che raccontano la città, le periferie proprio per l’abbecedario così marcato, fanno scuola, andrebbero studiate, alcuni luoghi sono materia di esami, via via sempre più complessi, un giro in periferia e impari come funziona il mondo, individui le mode stanno per arrivare, i costumi che indosseremo, i politici che ci rappresenteranno, gli interessi che porteranno in Parlamento. Insomma da che parte gira il vento. 
Le periferie sono utili anche se sei in vena di esistenzialismo e ti chiedi quale sia lo scopo della vita. Per non parlare di certe evidenti dinamiche psicologiche ed evolutive: non so, siete stanchi di citare Sartre? Volete capire di più sull’esistenza, sui nostri comportamenti? Fate un giro ad Accra, lì c’è la seconda discarica  d’Africa. Potete osservare un’enorme massa di persone, difficile da descrivere, non bastano i soliti aggettivi come brulicante, uomini e donne di tutte le età, che si muovono tra bancarelle e vendono gli scarti degli scarti dell’occidente, e con questi pezzi di risulta costruiscono simbolicamente e praticamente un altro mondo: un’altra esistenza. Noi solo per comodità narrativa la chiamiamo periferia, ma quelle dinamiche sono invece molto centrali per orientarsi nella vita.
A proposito di reti e  di dinamiche. Dalla strada principale, entri nel complexo di Alemão e cominci a inerpicarti tra le strade, molto ripide, scivolose, un ginepraio. Però, prima devi passare per i controlli. Cioè, la strada presenta un restringimento, devi rallenti e vieni squadrato da alcune persone. Accade a Rio ma durante la faida di Scampia, per esempio, ricordo che scrissi un piccolo saggio. Per assistere dal vivo a quello che succedeva, tentai di entrare, accompagnato da un giornalista. Fummo subito fermati e controllati. Il giornalista dichiarò in maniera perentoria: ho il tesserino, sono un giornalista. L’uomo mostrò la pistola e rispose: anche io ho il tesserino. Decidemmo seduta stante di non entrare, non era il momento adatto, diciamo così. 
Tornando al complexo di Alemão, una volta superati i controlli entri nel flusso della rete. Ci sono quelli che smerciano la cocaina, riconoscibili, come del resto sono riconoscibili tutti gli spacciatori del mondo. Ci sono quelli che arrivano a tutta velocità con una macchina e saltando la fila entrano nel box di un meccanico. Il tempo che ti prendi un caffè e la macchina è stata smembrata, i pezzi rivenduti al miglior acquirente, altro che piattaforma per le vendite online. Le moto sono ovunque e tutti quelli che le guidano calzano gli infradito, fa un certo effetto notare centauri che cavalcano moto grandi e potenti, cambiare le marce quasi a piedi nudi. Del resto, quando entri, meglio entrare nudo, pure le scarpe possono essere appetibili. Gli unici che girano esibendo oro sono i ragazzi del comando Vermelho, esibiscono pure i capelli rossi e qualche arma, così giusto per tranquillizzare tutti.
Ragazzi e ragazze, poi, si inseguono, disegnando palesi dinamiche di corteggiamento, molto marcate. I ragazzini per sfrontatezza sembrano già playboy riminesi, le ragazzine, tutte in hot pants, sfilano in gruppo. Di tanto in tanto l’incanto del corteggiamento è spezzato, perché arriva un ragazzo del comando che fa salire sulla moto una ragazza. E’ tutto veloce, marcato. La lingua è sporca, slabbrata, insomma famo a capirci. Sottigliezze poche come poche sono le regole. Io dovevo, per esempio, girare sempre indossando la maglietta di Medici senza frontiere, non fare foto e, in qualità di forestiero, passare un ulteriore controllo. Nel mio caso fui avvicinato da una persona che cominciò a interrogarmi ma acquistò immediata fiducia quando scoprì che ero simpatizzante della Roma e finimmo per parlare delle condizioni di salute di Totti, era un suo grande fan.

Superato l’esame ho potuto infilarmi in vicoli e strettoie, e qui c’è di tutto, associazioni politiche e culturali, gruppi di urbanisti e architetti, sfaccendati e impegnati h 24, lavoratori che scendono dal barrio e vanno verso il centro di Rio e fanno ritorno al tramonto. Signore che cucinano in baracche che da un momento all’altro – pensi – potrebbero cadere. Ti accolgono in case che della casa a malapena mostrano lo scheletro, tra l’altro molto rudimentale. Tirano fuori un tavolo, ti fanno accomodare su sedie di plastica e mentre ti godi il vento e il panorama della favela e con l’immaginazione ti spingi più in là, verso il lungomare di Rio, vedi il via vai continuo di turisti che girano alla ricerca del culo perfetto, mente fantastichi ti arriva il pollo fritto. Lo assaggi, dapprima tutto schifato, pensando a quali mani unte lo avranno trattato, poi al primo boccone pensi che sia il pollo più buono che tu abbia assaggiato e dici a te stesso: che potenzialità ci sono in questo barrio, cosa potrebbe diventare la favela se il caos fosse più organizzato, se i talenti venissero alla luce, se la rete fosse davvero solidale e non criminale. 
E torni a passeggiare per strade scoscese e incasinate, attraversi bolle musicali, cioè una schiuma di decibel di dance latina, così potente che pure gli uccelli fuggono e ti perdi nei tuoi pensieri, collegando periferie differenti e lontane ma uguali e vicine. Vedi, per esempio, certi corpi giovani che qui passeggiano mezzi nudi, noti con la soddisfazione di un pittore quelle linee ben sottolineate che uniscono e collo e natiche agli addominali scolpiti, i bicipiti nervosi, li vedi proprio davanti a te, questi corpi che passeggiano nella favela allegri e spudorati. Alcuni fanno moda, danno ritmo alla vita presente e innervano quella futura. Quindici anni fa, quando andai, stava esplodendo la moda del twerking e nei video musicali di gruppi locali a me sconosciutissimi c’erano ovunque immagini di natiche, in primo piano, grandi e sfacciate che twerkano. Faceva effetto notare il contrasto tra gli ormoni che salivano, l’eccitazione che si distribuiva per strade e stradine, la  gioia di vivere che cresceva e tutto tra le fognature a cielo aperto e i gas di scarico di mezzi che arrancavano tra le salite del barrio.
Ma le stesse cose le puoi vedere nei quartieri periferici del napoletano, anche lì, a Vicaria, Pallonetto, Sanità, Scampia, parli con ragazzini e ragazzine e ti rendi conto di quanto siano più brillanti e sorprendenti e talentuosi di quanto tu eri ragazzino. Osservi come si muovono, come si vestono, come espongono parti di sé che rafforzano il sé collettivo, il senso di identità del luogo, marcano il territorio, gli spazi della periferia. Alcune mode periferiche, giudicate non consone agli standard del centro, potete scommetterci che fra pochi anni le troverete ovunque, diventeranno stile di vita, saranno appetibili.
Comunque, questi pensieri ti accompagnano fino al tramonto rendendolo più dolce. Più si abbassa il sole più cresce la speranza  dell’alba che arriverà a breve: sarà – ti dici – più bella di quella di ieri. Però non appena il sole va via e le ombre si impossessano della favela, un po’ perché non sempre c’è elettricità, e capiti in zone buie, angoli minacciosi e alcune strade oniriche, lynchiane, un po’ perché arriva uno strano odore acre di copertoni bruciati, insomma calato il sole il tuo umore cambia. Cambia anche il paesaggio. Ora ci sono le madri e i padri di quei promettenti e vitali ragazzini e di quelle ragazzine. Li vedi proprio: obesi, inflacciditi, sdentati, ammalati, disagiati, alcuni con traumi di abusi sessuali o mortificazioni psicologiche. Molte ferite evidenti. Frutti di scontri, colluttazioni, di pallottole vaganti. Comunque uomini e donne tutti turbati e mezzi addormentati a causa di stress post traumatici di varia natura. Quegli adulti del barrio non sono diversi dagli adulti che vivono nelle periferie del napoletano. Del resto, ragazzini vitali e sorprendenti, belli e testardi, quelli che nella favela a 12 anni guidano in infradito moto di grossa cilindrata, quelli che sul lungomare di Napoli fanno i tuffi da Castel dell’Ovo, cantano canzoni, ballano, che si buttano per primi nelle mischie, quelli su cui scommetteresti, ebbene quelle persone, vuoi per l’abbandono scolastico, per mancanza di un rete affettiva duratura e profonda, quei ragazzini e quelle ragazzine – dicevamo – sono in media più destinati a diventare adulti problematici, depressi, dipendenti da sostanze, concentrati solo su come svoltare la giornata, su come difendere quale pezzo di territorio a loro assegnato. Persone che a forza di sbattersi per svoltare si ritrovano battuti e feriti per un eccesso di svolte dolorose. 
La rubrica ha varie voci, ragazzine che hanno scoperto di essere incinte un po’ per caso che vorrebbero abortire e il medico dice loro: ma quale abortire, tu fra pochi giorni devi partorire. Ragazzini che impennavano con i motorini e sgusciavano in mezzo al traffico, quelli destinati – vista la fluidità con la quale scelgono l’angolo giusto e  per la perfezione in cui si inclinano nelle curve – a farsi strada nella vita, che a 20 anni sono già sotto psicofarmaci o distrutti dalla cocaina e dalla vita o dal sistema camorristico. Insomma, quel concentrato di potenzialità si trasforma nel giro di mezza giornata in un groviglio di problemi, più intricato del dedalo di stradine, più accatastato dell’insieme di baracche e case. 
E su tutto cala l’odore acre di copertoni bruciati. Chiedi e ti rispondono con nonchalance che qualcuno sta bruciando, perché, nel complexo di Alemão c’è questa triste usanza, i traditori vengono impilati in copertoni e bruciati, inceneriti, una sorta di rogo delle epoche che furono. E passi la notte pensando: non ce la faremo mai a dar luce alle periferie, troppo complicate, troppo incasinate, troppo soggette alla rete criminale per far sfoggio di creatività duratura. 
Quindi la mattina dopo, spinto da un intento realista e meno poetico, vai a parlare con uno del Bope, che è il gruppo speciale della polizia brasiliana. Per alcuni un gruppo di fanatici, violenti, per altri dei santi, incorruttibili. Ti dicono: fatelo voi questo lavoro, rischiate la vita per pochi spiccioli. Non è meglio lasciarsi corrompere? Nel narcotraffico girano tanti di soldi. Se entri nel Bope devi essere incorruttibile. Disposto a una vita dura. Pensate solo a cosa significa fare un’incursione in una favela, con la gente che butta olio bollente, che sporca la strada con liquidi scivolosissimi, come fai a salire con un blindato fino in cima? Pensate a quelli che vi sparano da una finestra, vallo a scoprire chi è stato, se il colpo è partito da quella o quell’altra baracca. Immaginatevi un’incursione in una strada in pendenza, scivolosa, con i cecchini che vi puntano e la gente che vi tira di tutto addosso. Per proseguire nel tuo cammino devi essere molto motivato, fanatico per alcuni, incorruttibile per altri. Ma pensate com’è fare un’incursione quando Scampia era un’enorme piazza di spaccio (ora non lo è, è quasi un luogo ameno, le piazze si sono trasferite altrove). Non facevi in tempo a entrare in colonna che le vedette avevano già avvisato tutti e tutti sparivano, se prendevi qualcuno era un poveraccio che aveva problemi fisici e faticava a nascondersi. 
Le periferie sono uguali ma diverse. Quello che cambia, riguardo i gruppi criminali che in queste periferie hanno la sede, è il grado di cattiveria e disumanità. Il Comando rosso è il secondo gruppo criminale di Rio. Si è formato durante la dittatura brasiliana, quando in carcere ci finivano criminali comuni e prigionieri politici. Si sa come va a finire, in questi casi: i prigionieri politici sono delle teste pensanti ma non solo, erano anche guerrieri che combattevano la dittatura. Dunque, i criminali hanno imparato dai prigionieri politici come organizzarsi per difendere i propri affari. Non per niente il Comando Vermelho cominciò a scalare le classifiche dei narcotrafficanti raccogliendo fondi per finanziare le evasioni e alleviare le difficoltà in carcere. Le loro idee fecero scuola e così in breve sono diventati il secondo gruppo più potente. Prima collaboravano col Primeiro Comando da Capital (Pcc) di San Paolo, ma il Pcc si occupa di tante cose, tra cui, non ultima, la droga, ma è il Comando rosso a distribuirla, e alla fine sono saltati gli accordi.  Comunque la potenza di fuoco e di offesa del comando è tanto cresciuta e fa poche chiacchiere, spara a chiunque, polizia o meno. 
Dunque per contrastarli devi entrare nella favela. Cioè, in sintesi devi dichiarare guerra non a uno stato ma quasi. Difatti guerra è stata. Ore e ore di bombardamenti di fuoco con armi pesanti e bombe lanciate dai droni, come in Ucraina. La rete si è attivata, chi si è barricato in casa,  scambiandosi informazioni con vicini e amici nei gruppi WhatsApp. Chi ha dovuto cedere la casa ai narcotrafficanti perché quella casa era in un punto strategico, non puoi rifiutarti, pena la morte, o l’uccisione di qualche tuo parente. Così come non puoi permetterti di cedere la tua casa alla polizia, stessa procedura, morte violenta per tradimento. Alla fine, 138 morti. L’operazione è passata alla storia come il peggior massacro del Brasile. Per alcuni si è trattato di un’operazione infruttuosa, perché l’obiettivo principale, catturare  il leader del Comando, Edgar Alves Andrade, non è stato portato a termine. Lui è cresciuto nella favela e ha una fedina penale sporca di sangue. Le forze dell’ordine lo accusano di un centinaio di omicidi, tra cui quelli di tre bambini morti durante una sessione di tortura dopo aver rubato un uccellino a un narcotrafficante e successivamente scomparsi. Altri resoconti sostengono che abbia ordinato anche l’uccisione dei quattro narcotrafficanti che hanno brutalmente assassinato i tre bambini. 
Questo è successo martedì 28 ottobre 2025: con pesi diversi le periferie sono tornate sulle pagine di cronaca, in Brasile e a Napoli. Da una parte una violenta operazione militare, dall’altra una interessante intervista che ha suscitato un cacofonico coro di commenti, tra l’altro molto classicisti. In entrambi i casi, tutti a giudicare, a sfottere e a lavarsene le mani.
L’ultima immagine che conservo del complexo di Alemão è quella di un bambino che da solo giocava a pallone, in un campo di calcio, molto rudimentale. Il campo aveva una scritta: il re è nato qui. Il riferimento era al giocatore di calcio Adriano Leite Ribeiro, attaccante, grande animale calcistico (secondo la nota definizione di Ibrahimovic), orfano di padre che morì per infarto a 44 anni, ma nell’anamnesi andavano aggiunti i problemi psichici dovuti alla dipendenza dall’alcol. Bene, quel bambino, in nome di o rey, correva da solo per tutto il campo, dopo il tramonto, e calciava e tirava pallonate così pesanti che rimbombava tutto il barrio, sembravano colpi d’arma da fuoco. Avevo chiesto a uno dei medici che cosa facesse lì a quell’ora, da solo, testardo e strafottente. Mi rispose: sta combattendo contro le statistiche che l’hanno già condannato a diventare un narcotrafficante, un fenomeno da baraccone, un prodotto trash, uno con poca scolarizzazione che appena uscito viene preso in giro. Mi ricordo che l’ho fotografato, poi ho fatto anche un video ma sono stato circondato da alcuni ragazzi dai capelli rossi, ho dovuto cancellare tutto, ho sentito nella mia testa qualcosa di rotto, un rumore di piatti e bicchiere caduti per terra.
C’era una pubblicità progresso che vidi in quei giorni a Rio, una modella sniffava la coca e qualcuno dall’altra parte del mondo moriva.  Il filo che unisce il centro e la periferia, al di là delle chiacchiere sul trash è uno solo: si chiama cocaina e altre droghe. Non ce ne possiamo mica lavare le mani e fare finta che il problema non ci riguarda, diciamo che il centro consuma quella droga che le periferie distribuiscono. La rete ha questa forma. Poi un giorno, calmate le polemiche, senza troppi snobismi e forse animati da un sano spirito di osservazione e di responsabilità, capiremo come trasformare questa forma malsana in una più benevola, con una sua venatura di bellezza che sfrutti le potenzialità di tutti, senza deprimere o condannare nessuno.

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