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il silenzio

“Cessate il fuoco, ora!”, urlavano. Ma ora è adesso e le star si ammutoliscono

Andrea Minuz

Quel grido è stato esaudito: gli ostaggi sono stati rilasciati, migliaia di palestinesi sono usciti dalle carceri, gli abitanti di Gaza gioiscono per le strade. Ma la comunità intellettuale, musicale e cinematografica sembra evaporata. Perché il posizionamento garantiva visibilità, mentre la tregua annebbia tutto

Per due anni la meglio gioventù del cinema italiano si è scagliata contro festival e David di Donatello che restavano “in silenzio su Gaza”. Oggi siamo un po’ preoccupati per questo silenzio degli artisti sulla pace. Non un’intervista, una dichiarazione, un post di rallegramenti su Instagram, una spilletta. Niente. Scomparse le magliette “Free Palestine” sotto le giacche damascate – proprio ora che la Palestina, dove non ci sono elezioni dal 2006, potrebbe forse liberarsi da Hamas. Scomparsi adesivi, nastri, fascette, ventagli (quello stilosissimo di Laura Morante, in splendido caftano Blu Estoril, l’anno scorso a Venezia). Ricordate lo slogan? “Cessate il fuoco ora!”. Ora è adesso: ma nessun artista sembra poi così sollevato.


Eppure, il grido di dolore è stato esaudito. C’è una tregua che speriamo duri, gli ostaggi sono stati rilasciati, migliaia di palestinesi usciti dalle carceri. Ma è come se qualcosa si fosse inceppato. Come mai chi si era dato un gran da fare per la fine del conflitto oggi non sembra felice? Se lo domanda Paula Froelich sul Times, passando in rassegna star di Hollywood e artisti come Dua Lipa e Billie Eilish. Ce lo domandiamo noi pensando alla nostra comunità cinematografica, evaporata da social e giornali. Nessun pianto di gioia per il ritorno degli ostaggi. Nessun sospiro di sollievo. “Bisogna schierarsi dalla parte giusta della storia”, diceva Anna Foglietta che sciorinava post su Gaza ogni giorno: distruzioni, bambini, angurie. Ora solo un indignato cartello in total black: “Tra le macerie progettano piscine… è il marketing della pace”. Il marketing della pace non va bene, meglio 500 chilometri di tunnel che le piscine. E tutte le altre attrici che si alzavano al mattino e piangevano e avevano “il cuore a pezzi per Gaza”? E le lettere che iniziavano con “Noi sottoscritt*, artist*, lavorat* culturali”, piene di omaggi al lessico di Hamas – “apartheid”, “oppressione coloniale”? Perché non scriverne anche uno ora?


Il fatto è che il posizionamento garantiva visibilità dalla parte giusta, ma la tregua annebbia tutto. Forse era più urgente dividere l’umanità in due: contro il genocidio o a favore. “Non c’è una via di mezzo”, spiegava Michele Riondino. Per convincersi di “essere dalla parte giusta” dopo il 7 ottobre – dopo il massacro nel deserto, le famiglie prese in ostaggio, lo show con le bare dei Bibas – ci voleva una fortissima motivazione. Tanto per cominciare: rimuovere Hamas. Una rimozione che continua ancora. Nessuna indignazione per quei palestinesi freddati in piazza con un colpo in testa in questi giorni. In due anni nessun artista ha mai fatto la benché minima pressione su Hamas. Nemmeno una volta. Come se Hamas non esistesse. Come se fosse un algoritmo impazzito della Storia, non un’organizzazione con nomi, cognomi, leadership, strategie precise: combattere da ospedali e scuole, nascondere ostaggi nei tunnel. In compenso, tutte le notizie fornite da Hamas erano legge. Inconfutabili.


Hamas – non la causa palestinese – ha reso possibile agli artisti di sentirsi “dalla parte giusta”. Ma ora, di fronte alla felicità di migliaia di abitanti di Gaza che gioiscono per le strade, l’artista resta indifferente. Penserà: “non capiscono… Trump, Meloni... cosa c’è da festeggiare?”. Ha detto Baricco che “Gaza è il nome di un certo modo di stare al mondo” – cioè di resuscitare un certo modo di essere di sinistra. Gaza come teatro mentale perfetto per proiettare la lotta di classe: sfruttatori contro sfruttati, il Capitale contro il Popolo. Prendere un conflitto con radici religiose, territoriali, identitarie, e leggerlo come remake di antiche battaglie occidentali. Portare un po’ di Marx dove ci sono Hamas e Netanyahu. Una fantasia – questa sì – davvero molto coloniale: cercare in luoghi esotici un riscatto per lotte che non si combattono più a casa propria.

 

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