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il racconto
Gazaland, o di come Fabrizio Corona è diventato Hunter Thompson
Un ex re del gossip sbarca a Gaza reinventandosi reporter d’assalto, con provocazioni, verità distorte e spettacolo puro. Nel suo “Falsissimo”, la guerra diventa performance e il giornalismo una forma estrema di autofiction
Non c’è il cesso dentro cui Hunter S. Thompson intervistò il candidato George McGovern negli anni 70, in compenso abbiamo la Flotilla che arranca in un metaforico villaggio vacanze marinaro da “Gaza, prima spiaggia… a sinistra”, con Greta Thunberg, ormai scontenta e dimissionaria dalla rivoluzione, nella parte che fu già di Gegia. E mentre si consuma l’allontanamento della giornalista della Stampa Francesca Del Vecchio e a bordo, della polemica non della flottiglia, sale Selvaggia Lucarelli, pur simpatetica con la causa palestinese e cullando forse l’idea di voler abbattere droni con le palette di “Ballando”, ecco che dal più improbabile dei meandri del web emerge l’unico, vero erede del gonzo-journalism di Thompson; Fabrizio Corona. Mentre gli smerda-tori burroughsiani vagolano con i pedalò terzomondisti, lui prende e, contro ogni canone di razionalità, va a Gaza, come un autentico pirata della comunicazione. Negli appunti di Mary Shelley, rinvenuti dopo la sua morte, è scritto “su un’isola dell’Arcipelago Indiano una maga salva la vita a un pirata, un uomo selvaggio ma di animo nobile”.
Nei cinquantaquattro minuti di speciale “Falsissimo” su Gaza, si sperimenta una vertigine assoluta, psichedelica: Fabrizio Corona si getta anima e corpo nell’oceano del reale, nel cui fondo fluttuano James Graham Ballard, William S. Burroughs, semiotica e pornografia. Una giustapposizione avant-pop a base di incursione a Gaza, interviste, dialoghi rubati, Corona nella notte punteggiata di carri armati, muraglie e posti di blocco. Gaza, in questo febbrile delirio, è resa dispositivo totale composto da schegge di Gintoneria, di Garlasco, di calciatori dai gusti particolari e di messaggi vocali di Bova. Lo guardi, lo ascolti, Corona, mentre la flottiglia gira su di sé doppiando Capo Horn pur di non arrivare a Gaza, lo senti mentre narra, ma mica come un Barbero qualsiasi, e attacca il governo israeliano, quello italiano, affondi su Salvini e dissing rap e spunti di purissimo, incandescente pop. La sua Gaza è un ologramma che origina da nessun originale, fuori dal tempo, dallo spazio e dentro cui i droni sagittanti in cielo schiantano soubrette, attori, influencer e poi cronaca rosa e amplessi da messaggi privati di Instagram mentre sullo schermo scorre l’oscena carnografia del 7 ottobre. Hitler e Andreotti, il lodo Moro e Achille Lauro, il rapper, non la nave, e ti chiedi, te lo chiedi davvero, e se Lacerenza avesse aperto la Gintoneria a Gaza? Avrebbe comunque nitrito, mentre Hitler scarrella salutando la folla, c’è Corona subito dopo, ci parla dell’Olocausto, mantra del “milioni-milioni-milioni” guardando fisso in camera, sta contestualizzando la genesi di Israele, il dramma girardiano di fondazione e lo fa con maggiore sincerità di Genet a spasso per campi profughi, di un assolato Foucault che nei fumi del terzomondismo cercava altro e di tutti i gazawi onorari da studio televisivo.
Corona vuole visualizzazioni, soldi, fama, ambisce a divenire l’Agartha della comunicazione, e la sua Gaza non esiste al di là del campo di azione di “Falsissimo” e nonostante questo è più vera, sanguinolenta, macinata, disossata di tutte le piagnucolanti narrazioni narcisistiche di commentatori che si spruzzano il peperoncino negli occhi prima di essere inquadrati. Corona, quando parla di Arafat “stiloso con quella kefiah”, è il Roland Barthes di “Miti d’oggi” ma senza inutili fumisterie bizantine. E non c’è umanità che prescinda dallo spettacolo o dalla moda in questa Gaza di Fabrizio Corona. Ed è bene così. I peggiori disastri sono stati consumati sotto lo scintillare egoriferito dell’umanità. Lo insegnava già Proudhon, che non a caso stava tanto sul cazzo a Marx. Lo ha insegnato Carl Schmitt: giacobini e bolscevichi volevano l’universalità dei diritti e dietro i neon dell’illuminismo e della rivoluzione s’è avanzata solo la ruggine insanguinata della ghigliottina. Fabrizio Corona non parla del conflitto a Gaza, Fabrizio Corona diventa Gaza: una Disneyland orrorifica di cadaveri, insulti, analisi che sembra emergere da un podcast in cui una onlyfanser specializzata in gang bang d’improvviso scopre la geopolitica, risultando infinitamente più onesta delle mostre delle atrocità da studio televisivo dove va in scena ogni sera un genocidio performativo, tra cattedratici, comici, cantanti e attori. E Corona assurge a Leo Strauss tra le rovine di Gaza, dopo essersi guardato su YouTube tutte le precedenti puntate di “Falsissimo”.