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Politik influencer: i content creator riscrivono le regole della propaganda

Maurizio Stefanini

Arruolati da democrazie e regimi, i creatori di contenuti sui social diventano armi di propaganda. Dal fronte di Gaza ai salotti della Nato, è la nuova guerra per cuori e click

Da Israele che cerca di rifarsi l’immagine a Gaza al nipote di Fidel Castro, ormai è sempre più un mondo di influencer. Sulla stampa italiana le vicende – spesso disavventure – di personaggi come Maria Rosaria Boccia, Chiara Ferragni o Rita De Crescenzo hanno dato al termine un sottofondo quasi denigratorio, di manipolatori da quattro soldi. Ma per le potenze grandi e piccole si tratta invece di una nuova arma – di natura diversa dai droni, ma anch’essa tale da scombussolare il modo tradizionale di condurre le guerre, calde e fredde.   

Sono dieci, ad esempio, gli influencer americani e israeliani a cui il governo Netanyahu ha consentito di entrare brevemente nella Striscia di Gaza, per “rivelare la verità” sulle condizioni umanitarie dei palestinesi. Un tour organizzato dal ministero israeliano per gli Affari della Diaspora, allo scopo di mostrare il lavoro della Gaza Humanitarian Foundation (Ghf), la struttura israelo-statunitense creata per togliere a Hamas il controllo sulla distribuzione degli aiuti. Tra i partecipanti Xaviaer DuRousseau: esponente della “gen Z” con centinaia di migliaia di follower su Instagram, Facebook e TikTok, che dice di provenire da una famiglia di estrema sinistra, votava per Bernie Sanders e aveva iniziato la sua militanza politica con Black Lives Matter. Ma dal 2020 ha svoltato nettamente in senso Maga, e dopo la visita ha pubblicato un video in cui mostrava bancali di cibo e altri aiuti in attesa di consegna: “Potete odiarmi per essere andato a vedere la verità, ma non cambierete i fatti. Israele non è la ragione per cui molti palestinesi muoiono di fame. Se vi interessa davvero la causa di Gaza, andate a distribuire cibo invece di fare gli antisemiti della mensa”.

“Prima dell’arrivo del Ghf, il cibo veniva consegnato dall’Unrwa direttamente nelle mani dei terroristi di Hamas”, gli ha fatto eco Brooke Goldstein, avvocata di Miami legata alla destra e direttrice del Lawfare Project, un think tank americano che fornisce supporto legale gratuito alla comunità ebraica nel mondo. Un video è stato pubblicato anche da Marwan Jaber, sedicenne israeliano druso con quasi 250 mila follower su Instagram:  “Vergognatevi per non aver fatto nulla”, urla agli operatori Onu mentre passa in auto. C’erano anche Jeremy Abramson, ebreo americano residente in Israele (oltre 450 mila follower su Instagram), e gli israeliani Shiraz Shukrun e David Mayofis.

Ma anche la Russia usa gli influencer come arma. A settembre 2024 è stato pubblicato sulla rivista Réseaux uno studio intitolato “Sous les radars”, firmato da Maxime Audinet, ricercatore presso l’Institut de recherche stratégique de l’École militaire, e Colin Gérard, dottore in geopolitica: si tratta di un’analisi sull’ecosistema in continua evoluzione della macchina della disinformazione del Cremlino. Dopo che, in seguito all’invasione russa dell’Ucraina, l’occidente ha posto il blocco a media come Rt o Sputnik, gli attori pro-Mosca che influenzano l’informazione hanno iniziato a ricorrere “a pratiche più furtive e clandestine per diffondere le loro storie al pubblico occidentale”. Molto spesso queste campagne vengono “subappaltate dalle autorità pubbliche a società specializzate in pubbliche relazioni e marketing digitale”, aziende che cercano di corrompere gli influencer occidentali per diffondere al più vasto pubblico un linguaggio favorevole al Cremlino. 

Prima ancora era stata l’Fbi a rivelare una serie di documenti interni russi su un’operazione volta a influire sul risultato delle elezioni degli Stati Uniti e a manipolare l’opinione pubblica anche in Germania, Francia e Italia. E tra gli strumenti ci sarebbero stati 2800 personaggi attivi in 81 Paesi, identificati come influencer. Tra di loro conduttori televisivi e radiofonici, politici, blogger, giornalisti con seguito superiore ai 60 mila follower, uomini d’affari, professori, analisti di think-tank, veterani, professori e comici. Allo stesso tempo, c’era anche una lista di 1900 “anti-influencer” che Mosca combatte. A sua volta, la Cina a giugno ha invitato influencer statunitensi a partecipare a un tour promozionale nel Paese, coprendo tutte le spese. L’iniziativa, chiamata “China-Global Youth Influencer Exchange Program”, mira a promuovere lo scambio culturale e a raccontare la “vera Cina” attraverso i social media. Parte di una strategia per migliorare le relazioni culturali con gli Stati Uniti, prevede collaborazioni con creator cinesi, visite aziendali e attività culturali. E i contenuti saranno poi rilanciati dai media di stato, per promuovere un’immagine positiva della Repubblica Popolare. 

Ma anche la Nato arruola influencer. In occasione di quel vertice di Washington che dal 9 all’11 luglio 2024 ha tra l’altro celebrato i 75 anni dell’organizzazione, sono stati invitati 16 “content creator” provenienti da paesi membri come Belgio, Canada, Stati Uniti e Regno Unito, e altri dieci sono stati invitati dal dipartimento della Difesa e dal dipartimento di stato. In 48 ore, un gruppo di loro ha incontrato alti funzionari delle istituzioni più potenti di Washington, tra cui il Pentagono e il dipartimento di stato. Ma già nel 2022 aveva invitato nove content creator presso la sua sede a Bruxelles, in modo che potessero saperne di più sull’organizzazione. L’apertura della Nato ai creator fa parte di un’iniziativa più ampia chiamata “Protect the Future”, che mira ad “aumentare la consapevolezza e il sostegno alla Nato tra il pubblico giovane di tutta l’Alleanza e dare loro voce nel continuo adattamento della Nato”.

E perfino la  Chiesa cattolica non disdegna gli influencer. In Brasile sta provando a utilizzarli per contrastare l’espansione protestante. Sono diventate famose suor Marizele Rego e suor Marisa Neves, due suore cantanti accompagnate da un gruppo di ballerine vestite con saio, croci e velo. O il prete cantante Marcelo Rossi. Ma in effetti anche Alexei Navalny era un influencer. E non è il solo martire della categoria.  Basta gettare uno sguardo sulla cronaca mondiale, per scoprire, ad esempio, la storia di Gabriel Jesús Sarmiento Rodríguez: un 25enne tiktoker venezuelano che denunciava agenti di polizia corrotti e di membri di bande criminali, ucciso da uomini armati che hanno fatto irruzione a casa sua mentre parlava in diretta. O Sana Yousaf: la 17enne pakistana che difendeva i diritti delle donne, aveva un milione di follower ed è stata uccisa da un uomo che aveva respinto. O ancora l’influencer burkinabé Alino Faso, trovato impiccato nella sua cella.

Perfino il nipote di Fidel Castro è diventato influencer. Il 33enne Sandro Castro impazza sui social usando il nome del nonno per guadagnarsi fama online e stigmatizzando con ironia la carenza di cibo, medicine, elettricità e carburante sull’isola. Una parte della popolazione trova divertenti le sue provocazioni, i fedelissimi del progetto comunista cubano lo tacciano di mancanza di rispetto nei confronti dell’eredità lasciata dal suo famoso antenato, per altri il suo stile di vita opulento e la sua apparente mancanza di empatia risultano offensivi.  Sul suo account Instagram ha 127 mila follower, che ripaga con immagini di feste sfrenate a base di alcol, spesso in compagnia di donne con abiti succinti. I suoi sostenitori lo chiamano scherzosamente il “prossimo presidente”.

In Italia nell’ottobre 2022 è nata formalmente Assoinfluencer. Sindacato delle star dei social e dei content creator inquadrato nella Confcommercio, è la prima associazione italiana della categoria. Nello spiegare che fare l’influencer è a tutti gli effetti un lavoro e che come tale ha bisogno di essere tutelato, Assoinfluencer stima che il suo bacino di rappresentati in Italia arriverebbe a 350 mila persone, e ricorda pure come oltre il 50 per cento delle aziende italiane aveva attivato campagne di influencer marketing (Im) nel 2021. E già nell’aprile del 2024 si stimava che il settore in Italia potesse valere un miliardo, ma senza l’indotto. Nato da un’idea degli avvocati Jacopo Ierussi e Valentina Salonia, proprio per “supportare da un lato e regolamentare dall’altro questa categoria professionale in ascesa, ma ancora poco tutelata sul piano legale” che va dagli  youtuber ai podcaster passando per streamer, instagrammer e cyber atleti, attraverso i suoi fondatori il sindacato sottolineava come “quella dell’influencer è una figura nuova e che cambia tanto rapidamente quanto il mondo dei media.  I creator possono essere artisti e imprenditori, atleti e divulgatori, ma sono sempre professionisti, capaci di produrre valore attraverso competenze e strumenti specifici”. Proprio in questa chiave aveva partecipato all’indagine conoscitiva in parlamento che ha portato all’approvazione dell’Emendamento Creators nella Legge sulla Concorrenza 2021, con cui si riconosce ufficialmente la figura del content creator. Di fatto il primo passo delle istituzioni per lo sviluppo della creator economy italiana, da cui la successiva formalizzazione dell’associazione. Anche negli Stati Uniti è nato un American influencer council (Aic), mentre la Francia ha varato una disciplina ad hoc. 

Sul problema teorico di stabilire la differenza tra influencer e giornalista, Ierussi ha spiegato che “le piattaforme social media non sono la redazione, non sono una testata. E’ come se fossero la carta dove è scritto il giornale. Ogni creator è già responsabile di se stesso. Ad oggi, possono essere penalmente perseguibili, sono soggetti a procedimento presso l’Authority, dunque, sono già responsabili di quello che dicono sui social media. Google ha 500 ore di video caricati al minuto. Potete capire che sarebbe inimmaginabile controllare qualsiasi cosa. (...) Il giornalismo puro, che ha un valore a livello costituzionale, non può essere equiparato alla creazione di contenuti sulle piattaforme”. Però ha aggiunto che “il giornalismo dovrebbe guardare alla content creation economy come a una nuova opportunità di raggiungere i lettori e gli ascoltatori. L’informazione vive della sua capacità di essere comunicata indipendentemente dal mezzo; ciò è quanto ci ha insegnato la storia”. 

Se la definizione della categoria professionale è recente, e legata al boom dei social network, è oggi ampiamente accettato come il primo approccio alla teoria degli influencer venga da “The people’s choice: how the voter makes up his mind in a Presidential campaign”, uno studio del 1940 sulla comunicazione politica a firma di Paul Felix Lazarsfeld. Sociologo statunitense di origini austriache, che fu anche consulente per il governo di Washington, considerato l’ideatore di molti aspetti della metodologia della ricerca sociale empirica, in quel testo espose i risultati di una ricerca sugli effetti dei mass media sulle scelte politiche della popolazione, per cui seguì seicento elettori durante negli ultimi mesi della campagna elettorale per le presidenziali e analizzò questionari sulle abitudini e sui cambiamenti nella scelta di voto. Il lavoro mostrò che la comunicazione interpersonale, ad esempio con persone influenti o con persone più istruite, aveva un impatto decisivo sulla scelta elettorale, mentre la campagna e più in generale i mass media non sembravano spostare le preferenze più di tanto. In questo modo si sviluppò una teoria degli effetti limitati dei media, che si contrapponeva alla teoria cosiddetta “ipodermica” di un’altra scuola definita “behaviorista”. Importanti invece nell’influenza sulla scelta elettorale risultavano essere i cosiddetti opinion leader, capaci di comunicare efficacemente i contenuti dei media alle persone. Lazarsfeld sviluppò attraverso questo modello la Teoria del flusso a due fasi di comunicazione: nel primo livello, gli opinion leader utilizzano i mezzi di comunicazione di massa per ottenere informazioni; nel secondo livello comunicano le loro informazioni, filtrate attraverso le loro opinioni, al resto della popolazione. “Multi-step flow theory”, fu definita.

Ma si può parlare di “influencer” anche in riferimento al Seicento. Lo storico Alessandro Marzo Magno, nel suo recente libro su Casanova ha osservato che “in termini contemporanei (…) sia Marco Polo sia Giacomo Casanova potrebbero essere definiti influencer: si sono fatti conoscere presso l’opinione pubblica e hanno messo in piazza i fatti propri, seppure con finalità diverse: il primo voleva facilitare i follower (i mercanti) nell’operare in un mondo lontano e difficile come quello cinese; il secondo con i suoi post voleva ottenere il rango sociale che non gli era stato garantito dal sangue e grazie alla scrittura intendeva raggiungere l’immortalità”. In questa chiave, sicuramente in tempi più recenti hanno avuto il netto profilo di influencer personaggi come Gabriele D’Annunzio e Oscar Wilde; mentre, in un passato più remoto, avrebbe avuto simili caratteristiche l’ateniese Alcibiade. E in mezzo ci sono stati personaggi come Caterina de’ Medici, che lanciò le mode dei tacchi alti, delle culotte aderenti, del corsetto per assottigliare la vita, del profumo, delle forchette, della separazione tra piatti dolci e salati, del gelato; Elisabetta I Tudor, che impose un look icastico con incarnato diafano, ricci rossi raccolti per mettere in risalto la fronte, sopracciglia depilate e labbra scarlatte, ottenuto anche con sostanze tossiche come biacca o distillato di belladonna; Luigi XIV, da cui la parrucca e il nomi di pranzo e cena scambiati (per via dei suoi orari); Maria Antonietta con le sue crinoline. Ma anche generali e alti ufficiali inglesi sono stati lanciatori di abiti: dai Raglan e Cardigan della guerra di Crimea al Montgomery della Seconda guerra mondiale. L’effetto si moltiplica con il cinema: il fascino androgino di Marlene Dietrich, il tubino nero Givenchy di Audrey Hepburn in “Colazione da Tiffany”, la chioma platino di Marilyn Monroe, i completi azzimati di Cary Grant, il trench reso celebre da Humphrey Bogart, il chiodo di Marlon Brando, l’accoppiata t-shirt e jeans di James Dean. Negli anni Sessanta si aggiungono la musica e le modelle, fino al boom delle Big Six degli anni Novanta: Cindy Crawford, Claudia Schiffer, Naomi Campbell, Linda Evangelista, Christy Turlington, Kate Moss. Ma c’è anche Lady Diana, che lancia Lady Dior. 

Insomma, il modello è antico. Ma è stato il boom di internet e social a permettere l’ascesa di un tipo di influencer puro, non proveniente da altre “attività”. Un vertice che si può raggiungere partendo dal basso, ma che si può anche perdere con grande facilità. Lo scivolone di Chiara Ferragni, peraltro meno grave rispetto al bambino ucciso nel giugno 2023 in un incidente provocato dagli youtuber Borderline, arriva 7 anni dopo che, negli Stati Uniti, i commenti antisemiti e razzisti dello youtuber PewDiePie portarono all’annullamento dei suoi accordi con la Walt Disney Company e a una “diffusa reazione negativa”. E poi l’influencer delle celebrità Kendall Jenner e altre personalità dei media che non rivelarono il loro sostegno a pagamento al fraudolento Fyre Festival, come richiesto dalla Federal trade commission; lo youtuber Logan Paul che pubblicò un video contenente un cadavere nella Suicide forest in Giappone, scatenando accuse di insensibilità. Se vogliamo, anche tutto questo rientra nel concetto di “società liquida” lanciato da Zygmunt Bauman fin dal 2000.
 

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