Pare che Jim Carrey sia la personificazione del cringe. Qui con Jeff Daniels in una scena di “Dumb and Dumber” (1994) 

magazine

Fenomenologia del cringe

Annalena Benini

Le effusioni, una battuta, la risposta immediata a un messaggio, un invito per la sera. No, grazie, niente pressioni. Il cringe non è solo un’arma di scherno contro gli adulti, è il più grande blocco emotivo degli adolescenti d’oggi

“Poche cose parevano più tremende a Newland Archer di un’offesa al ‘buon gusto’, quella remota divinità di cui la “forma” era il solo visibile rappresentante e vicegerente”

(Edith Wharton, “L’età dell’innocenza”)


A lungo ho creduto che la parola cringe riguardasse quasi soltanto il modo in cui mi guardano i miei figli. Cioè si riferisse, nella sostanza, al rapporto del mondo nuovo con il mondo vecchio: creazione continua di imbarazzo, disagio, anche un po’ di vergogna in chi osserva una madre che balla, ad esempio. O che fa una battuta, si sente divertente e non lo è. Sgomento verso chi trova irresistibili i film con Jim Carrey che fa le facce, e a sua volta per far ridere fa le facce (mi è stato detto che Jim Carrey è la personificazione del cringe e in effetti non avrei saputo che cosa ribattere). Altro assunto: troppe effusioni (anzi, le effusioni) sono cringe, l’ho imparato a mie spese. Ma anche cercare di usare un linguaggio che storicamente non ci appartiene lo è. La conseguenza diretta è che io sono cringe nel momento stesso in cui dico: cringe. 

 

Sono cringe mentre cerco disperatamente di non esserlo. 

 

Sono insopportabilmente cringe quando parlo al telefono a voce alta, sono insensatamente cringe quando mi aspetto di ricevere risposta a un messaggio che ho scritto venti minuti prima. Che si trattasse di un meccanismo diabolico l’avevo capito, che non ci fosse per me possibilità di salvezza anche, ma mi sfuggiva l’estensione di questo fenomeno culturale: non è semplicemente un’arma di scherno con cui i ragazzi si prendono gioco degli adulti, dei loro tic culturali, e anzi esercitano una certa forma di compassione e quindi di simpatia. Si tratta del più grande blocco emotivo dell’ultimo decennio. 

 

Le ragazze, i ragazzi, in particolare gli adolescenti, sono dominati dal terrore del cringe, sono paralizzati all’idea di fare o dire qualcosa di cringe, e agiscono e non agiscono di conseguenza. Prevalentemente, non agiscono. Perché qualunque gesto può risultare cringe (oppure irresistibile, e qui sta la diabolicità: il rischio è altissimo, ma se si ha abbastanza coraggio e inconsapevolezza, e se ci si sa muovere nell’onda giusta, al momento giusto, si può perfino fare tutto il giro del successo senza passare per il cringe. Dipende dal tocco magico, dalla polvere di stelle, ma anche dal modo in cui muovi la testa e ti tagli i capelli). La cosa più difficile, però, è questa: il cringe è imprevedibile

 

Ho chiesto spiegazioni, ho cercato su Tik Tok, e ho capito che bisogna immaginare il cringe, per usare categorie comprensibili al Novecento, come il Monopoli quando si arriva in prigione. A ogni tiro di dadi si rischia il cringe. Ma dentro quel tiro di dadi, a parte la fortuna, bisogna esercitare la cautela e, soprattutto, la nonchalance. La nonchalance è il jolly, la medicina per tutte le malattie. E potete ben capire, per cominciare a orientarci, che le facce di Jim Carrey sono il contrario della nonchalance. Ma succedono cose molto strane: a un certo punto, a causa di alcuni video in cui balla in modo strano, Zendaya è diventata cringe. Quindi il pericolo è ovunque. Zendaya ha mostrato una debolezza, un po’ di tenerezza, un lato infantile. Non avrebbe dovuto. 

 

In un mondo in veloce movimento, in cui le regole vengono continuamente sovvertite, ci sono alcuni punti fermi (chiedo scusa per il cringe delle mie affermazioni perentorie). 

 

Nasce tutto da un comandamento che si è diffuso via social, probabilmente con le migliori intenzioni (quindi le peggiori), cioè per affilare quest’arma a doppio taglio che è l’autostima. Il comandamento è: Non hai bisogno di nessuno, basti a te stesso e sei tu la persona più importante. 

 

Se devi passare il tempo a dimostrare di non avere bisogno di nessuno, di bastare a te stesso, certo gli ostacoli del cringe si moltiplicano. 

 

Rispondere subito a un messaggio invece che dopo almeno 40 minuti, o anche due giorni, è cringe, perché presuppone che tu stia lì con il telefono in mano e non abbia niente di meglio da fare che rispondere a quel messaggio. E’ evidente che stanno tutti lì con il telefono in mano aspettando un messaggio, ma questo non significa che abbiano la libertà di rispondere. Alla migliore amica, al ragazzo che ti piace, alla ragazza che finalmente ti ha scritto mesi dopo averti ghostato, perfino alla professoressa che manda il calendario delle lezioni. Non vorrei qui parlare dei genitori, perché i genitori sono i reietti e non devono mai ricevere risposte. Non sempre il motivo ufficiale per cui non si risponde a un messaggio è il cringe, ma è sempre quello vero. La motivazione universalmente accettata è che un messaggio (che magari dice: come va? Ci vediamo?) è comunque un’invasione (le telefonate non esistono proprio) e una pressione, oltre che una forma di controllo: a questa invasione e a questa pressione ci si ribella con nonchalance, semplicemente rimandando di qualche ora il momento della risposta. Tanto sanno tutti come si legge un messaggio e come si ascolta un audio senza visualizzarlo, quindi se è una questione di vita o di morte si potrà, con nonchalance, occuparsene. La persona che non riceve risposta ha messo in conto di non ricevere risposta e, a poco a poco, smetterà di mandare messaggi per non essere cringe. Tanto il comandamento è: non hai bisogno di nessuno. 

 

E’ cringe un gesto di amicizia, una manifestazione di entusiasmo per l’invito a una festa o per una buona notizia, ma è cringe anche un atteggiamento o un tempo comico, una battuta che fino a due settimane prima era ritenuta favolosa; quindi non ci si può mai rilassare.

 

In più, rispetto alla grande disinvoltura del non vedersi e del cambiare programmi all’ultimo secondo, qui c’è qualcosa che nel Novecento era impensabile: un appuntamento è sempre replicabile. Se non ci vediamo oggi, possiamo vederci domani o la settimana prossima, basta un messaggio nonchalante. Per noi reietti, invece, un appuntamento preso al telefono fisso, un invito accettato di persona, un ragazzo che suona alla porta di casa o ti aspetta all’angolo era qualcosa di assoluto: come un patto di sangue, come un giuramento. Adesso si può sempre “riorganizzare”, ovviamente con indifferenza. Abbiamo visto tutti, sempre sui social, il fenomeno delle feste di compleanno andate deserte (l’incubo di ogni persona che organizza una festa, l’incubo di chi ha letto Il ballo di Irene Nemirovsky, l’incubo anche di Edith Wharton quando descrive, nell’Età dell’innocenza, l’accidentato rientro in società di Madame Olenska. Nessuno accetta l’invito a pranzo della rispettabilissima nonna, per il quale erano state già ordinate decine di anatre, ma almeno vengono recapitati, quarantotto ore dopo gli inviti, biglietti di risposta in cui tutti mentono scrivendo di essere “rammaricati di non poter partecipare”. Nella buona società newyorchese di fine Ottocento. Nella malvagia società moderna, si possono ordinare decine di anatre e ritrovarsi da soli in abito da sera davanti alla tavola imbandita e alle posate d’argento. Anche in questo caso, mostrare troppo dispiacere sarebbe cringe. Succede spesso con le feste di compleanno dei bambini, con i palloncini già gonfiati, e non sarà cringe ma è la massima forma di crudeltà. Viene però onorato il comandamento: non hai bisogno di nessuno.

 

La modalità della nonchalance è: avere altri impegni, disdire all’ultimo secondo pensando che comunque non è importante, non rispondere mai alle telefonate anzi indignarsi di riceverle, dimenticarsi di avere preso un appuntamento, non far capire che ci si tiene un po’, non visualizzare il messaggio, e soprattutto non dire mai: ci vediamo stasera? 
Se qualcuno le dice: ci vediamo stasera? mia figlia va nel panico del cringe e della pressione. Né lei oserebbe mai proporre a qualcuno di andare al cinema o altrove la sera stessa (a parte a me, ma io per lei sono nel mondo di Jim Carrey quindi non conto). La frase accettabile è: vediamoci una di queste volte. Poi non si visualizza più la risposta. Tanto possiamo vederci sempre, quindi tanto vale rimandare. Non è meglio incontrarsi per caso? Non è forse molto meno cringe?

 

Ma io chiedo al mondo nuovo: e se c’è qualcosa di urgente di cui discutere? Se ho davvero bisogno di te? Se mi è successo qualcosa che devo raccontare, se ho bisogno di un consiglio? Possiamo sospendere il cringe almeno quando muore il mio gatto? Ed ecco il cambiamento degli ultimi anni: bisogna stare alla larga dal trauma dumping, in cima alla classifica del cringe tossico. Mi spavento, che cosa diavolo è questo trauma dumping? Scaricare sugli altri i propri problemi, monopolizzare la conversazione parlando di quello che non va, esercitare la tirannia del pianto, mettersi al centro dell’attenzione con il ricatto delle lacrime e del bisogno di aiuto. Mostrarsi deboli, ma in realtà egocentrici, fintamente spontanei, e comunque portatori di energie negative. Se un’amica utilizza il trauma dumping più di due volte in un anno scolastico, rischia di venire espulsa per eccesso di cringe. Insomma, nel mondo del: sii te stesso, non c’è molta libertà di movimento. Né tolleranza. Se sento che tu stai invadendo con la tua importanza la mia importanza, non verrai perdonato. Se sento che il tuo senso dell’umorismo è superato, ti starò lontana. Anche se sei Timothée Chalamet, che in questo momento è l’essere umano più lontano dal cringe. Ma ha rischiato molto, fidanzandosi con una ragazza  che viene dal cringe, Kylie Jenner, ma lei era talmente cringe da avere fatto il giro: non lo è più. Nell’incomprensibilità di queste regole, infatti, l’unica speranza è che tutto cambia molto in fretta, e che una faccia nuova, un film, una camminata strana, un messaggio inaspettato, un bagno in mare o un batticuore sommergeranno un giorno anche tutto questo misterioso, tirannico cringe. 

 

C’è una frase che ultimamente usano tutti: to be cringe is to be free, ed è ancora un’aspirazione più che un movimento di liberazione. Lo dicono, ne ridono, ma intanto non visualizzano i messaggi e bidonano gli appuntamenti all’ultimo secondo. Fingono di essere in viaggio e magari sono chiusi in camera, o al mare dai nonni. La liberazione arriverà all’improvviso, vorrei tanto essere lì e fare le facce come Jim Carrey. 

Di più su questi argomenti:
  • Annalena Benini
  • Annalena Benini, nata a Ferrara nel 1975, vive a Roma. Giornalista e scrittrice, è al Foglio dal 2001 e scrive di cultura, persone, storie. Dirige Review, la rivista mensile del Foglio. La rubrica di libri Lettere rubate esce ogni sabato, l’inserto Il Figlio esce ogni venerdì ed è anche un podcast. Ha scritto e condotto il programma tivù “Romanzo italiano” per Rai3. Il suo ultimo libro è “I racconti delle donne”. E’ sposata e ha due figli.