
Fabrizio Grifasi (LaPresse)
L'evento
Il festival dove l'Europa non si discute ma si esercita. Parla il direttore Fabrizio Grifasi
"Quarant’anni fa non c’era neanche un programma europeo della cultura. Visti i risultati, la nostra è un’utopia realizzata”, dice il direttore artistico e generale del Romaeuropa Festival
Ogni tanto, tra una guerra e un algoritmo che decide cosa vediamo, bisognerebbe chiedersi che fine ha fatto l’Europa. Non quella dei parametri di bilancio e delle regole sull’extradeficit, ma l’Europa delle città aperte, della musica che non ha passaporto, del pensiero che accoglie l’altro senza tentare di normalizzarlo. Quell’Europa lì – fragile, non redditizia e a tratti invisibile – ogni tanto riappare. Non nei trattati, ma sui palcoscenici. Non nei consigli europei, ma nei festival.
A Roma, da quarant’anni, il Romaeuropa Festival è uno di quei luoghi in cui l’Europa non si discute, ma si esercita. Quest’anno, dal 4 settembre al 16 novembre, ha in cartellone 110 spettacoli, 700 artisti da 16 paesi e 250 repliche, ma a colpire è il fatto che in una città attraversata ogni giorno da conflitti irrisolti – culturali, urbanistici, sociali – si continui a scommettere sull’incontro, sulla molteplicità, sulla bellezza come forma politica. “Il nostro è sempre stato un festival europeo ed europei lo siamo nel modo in cui abitiamo le differenze”, dice al Foglio Fabrizio Grifasi, direttore artistico e generale del festival. E’ lui l’architetto silenzioso di questa infrastruttura culturale che ha resistito al passare delle stagioni politiche senza mai diventare una macchina autoreferenziale. “Quarant’anni fa, eravamo ancora più distanti da un’idea di Europa che discutiamo in questi giorni. Nell’86 non c’era neanche un programma europeo della cultura. Visti i risultati, la nostra è un’utopia realizzata”. Al via al Teatro dell’Opera con “Afanador”, una produzione, supportata da Banca Ifis, del Ballet Nacional de España, firmata da Marcos Morau ed ispirata all’immaginario queer e barocco del fotografo colombiano Ruven Afanador. “Tutto il programma 2025 esplora il potere dell’immaginazione come forza di cambiamento, mettendo in dialogo le visioni artistiche con le sfide concrete del presente”, aggiunge il direttore.
Ci saranno Laurie Anderson e Steve Reich, Blixa Bargeld e Hotel Pro Forma, Ryoji Ikeda, Stefano Bollani con Alessandro Baricco, il Ballet National de Marseille, la Dresden Frankfurt Dance Company e moltissimi altri. “Il nostro – precisa – è un festival fedele ai princìpi di accoglienza e pluralità, una pluralità dell’estetica e delle idee. Cerchiamo progetti che siano fessure nel presente. Non ci interessa rappresentare il mondo com’è, ma mostrarne le pieghe, i margini, le zone grigie, le differenze e le imperfezioni”. Del resto, sin dall’inizio con Jean-Marie Drot e Monique Veaute, questo festival non è mai stato decorativo. Sarà interessante, allora, andare alla Pelanda del Mattatoio di Testaccio alla sezione ULTRA REF che spingerà Romaeuropa verso un altrove radicale dove incontrare ed apprezzare musica elettronica, arte digitale, intelligenza artificiale, linguaggi ibridi, clubbing colto e installazioni. Un’avanguardia che non è snobismo, ma un’esplorazione di nuove forme del vivere sul palco (e non solo) con Lyra Pramuk, Tarta Relena, Maria Arnal e Populous, insieme a collettivi indipendenti, a talk e laboratori. Oltre alla ricerca, “continua ed inarrestabile”, c’è anche la cura. REF Kids & Family, ad esempio, accoglie l’infanzia come soggetto culturale, ben sapendo che l’educazione estetica inizia da piccoli e che se non la si coltiva lì, è molto difficile che attecchisca dopo. Nel centenario dalla nascita di Luciano Berio, poi, gli sarà dedicata l’installazione sonora “In-Naturale” e la performance “Berio a colori”.
Gran chiusura con il duo austriaco Kruder & Drfmeister con The K&D Session Live per celebrare i loro trent’anni e di uno dei dischi cult dell’elettronica anni Novanta. Un festival che non è solo un evento, dunque, ma un atto civile, “uno spazio in cui sospendiamo il tempo della produttività per dedicarci a quello della visione che oggi è una forma di resistenza”. “Considerando la complessità della realtà, conclude Grifasi, il confronto con visioni, artisti e generazioni differenti è necessario. Roma è il suo pubblico, che ha un ricambio del 40 per cento ogni anno e che risponde sempre con entusiasmo”. Il risultato è un festival che è una tregua pensante in una società che vive di accelerazioni cieche. Una comunità effimera, certo, ma sicuramente vera e che si forma attorno a uno spettacolo, a un suono inatteso, a un gesto che non si capisce subito ma resta lì, come un seme che sopravvive a qualcosa dell’Europa che abbiamo perduto. Quella che non ha bisogno di proclami, ma che danza ancora.