Foto di gaspar zaldo su Unsplash

Estate con Ester

Adescare gli sconosciuti con frasi prefabbricate è un'arte. Odiosa per chi è incapace

Ester Viola

Dalla pioggia alle stagioni che non esistono più, fino ai superclassici mezzo-borghesi dei prezzi delle case. Gli abili (e odiabili) manipolatori che trasformano il nulla in materia di chiacchiere

C’è sempre un momento nelle biografie minime della gente, quelle che ti fanno a cena durante la mezz’ora in cui ci si descrive nel gioco di piccole verità reciproche, in cui aspetto (e arriva) il complimento letale: “Ah, ma non sai, lei/lui parla con chiunque. Dove sta, attacca bottone”. Segue il racconto di una scala di passanti che va dal venditore di agate false in Messico fino a Belzebù.  Lo dicono con grande ammirazione, come si parlasse di esseri umani di qualità migliore, quelli interessati agli altri, quelli che degli altri non si annoiano, anzi, avercene di gente che ti riempie le giornate e ti rende la vita interessante raccontando i fatti suoi. La verità è che essere capaci di stare al mondo in quel modo – amici degli estranei – è un atto di eroismo sociale. La conversazione breve, quella casuale, è proprio un’arte, mi sono convinta. Nonostante i detrattori la inquadrino più come forma di disperazione e spasmi di bisogno di compagnia. Ma di che si parla, esattamente, quando non si parla di niente? Del tempo – fa caldo, fa freddo, quanto ha piovuto quest’anno, le stagioni che non esistono più. 

Poi c’è l’elefante globale (“Trump è un pazzo, sì sì, proprio un pazzo, finirà malissimo, faranno un attentato vedrete”). Poi la geografia economica: Milano, come si fa a vivere a Milano? Quanto costa, ma siamo pazzi, paghi i milioni per respirare in un posto che è come una fonderia. Fino ai superclassici mezzo-borghesi: in questo quartiere gli immobili vanno a dodicimila euro al metro, i prezzi di Londra solo che poi ti giri intorno e Londra non c’è. Oppure si parla proprio del nulla, che è già tanto.

Quello che chiamano small talk è un compendio di frasi penosamente prefabbricate, che continua minuti su minuti, con un’ombra che s’allunga sui pensieri: ma che me ne frega di tutto questo, che me ne frega? Perché è così difficile, la cura minima dello sconosciuto? Come fa a scocciare in questo modo incredibile averci a che fare? Perché è una forma speciale di dialogo consumatrice di forze, si chiama “phatic communication” (le espressioni che non significano nulla ma servono a dire “ci sono, ci sei, tutto bene”), è una disciplina equilibrante. 

Ci si nasce, abili nella conversazione vuota? Forse sì. Ci sono individui che conoscono il tono, l’angolatura della testa, quando andarsene senza sembrare sbrigativi. La frase sospesa, non troppo lunga o troppo corta. Sono anche veloci a capire se dall’altro lato c’è un intelligentissimo che si nasconde, e lo stanano. Certi small talker chiacchierano amabili sotto l’ombrellone a Bordighera con un quisque de populo, e il giorno dopo il quisque li invita a Saint-Tropez due giorni perché ha il panfilo, si scopre in seguito. Questi sono i casi di small talk a lieto fine.

E poi c’è il resto del consorzio sociale. I normali, preferisco chiamarli così, perché di loro faccio parte pure io. Quelli che vedono il tempo come un bene che scarseggia, e quindi sono contenti se le porte dell’ascensore si chiudono prima che il poverocristo a dieci metri riesca a farci compagnia.

Il paradosso è che per i nobili, i conversatori brevi – i communal-oriented, si chiamano così nelle discipline che studiano i cervelli – non parlare, isolarsi, non è autodifesa, è arroganza. Non è possibile starsene in disparte a farsi gli affarucci propri. E io li odio, questi conversatori del vuoto, perché non sembrano neanche affaticati, perché fanno sembrare spontaneo un esercizio scenico, un mestiere di sopravvivenza mondana a stipendio zero.

Esistono, insomma, bisogna rassegnarsi. Quelli che gli altri vengono prima di me, gli altri hanno sempre qualcosa di interessante da dire, gli altri sono importanti. E noialtri non si sa che fare. Quel rosario di niente gli viene così facile. Con l’estraneo si divertono, loro. L’estraneo è una benedizione ovunque capiti. In treno, in fila in banca, al tavolo accanto. Chissà, forse non gli pesa il peso del mondo. Forse è stata l’infanzia felice, il primo amore andato bene. Lasciano l’interlocutore con l’impressione di essere importante, sono il tipo di brava persona da dizionario: uno che pare sempre trovare gli altri più interessanti di sé stesso. Per forza li prendono tutti a benvolere e poi hanno la vita facile. Che ingiustizia.