L'editoriale dell'elefantino
Il disagio, termine eufemistico e pervasivo di una terapia ideologica di gruppo
L’ansia, o anche solo l’infelicità di vivere. Ma la scienza clinica è tornata a sorvegliare e punire dimenticando la lezione di Franco Basagli e Michel Foucault
Una normale tristezza, un senso di vuoto, una botta di insicurezza o addirittura di paura, ecco la diagnosi coatta di depressione, diagnosi sociale afferente il nuovo concetto precauzionale di disagio mentale, ecco il convegno, la maratona radiofonica, la mediatizzazione inevitabile, il romanzo sulla generazione degli attacchi di panico, poi il bonus psicologo, che è iniziativa commendevole eppure mal argomentata, troppo socializzata, presentata in veste pandemica, ecco le iniziative scolastiche, la cura, la messa in stato di sorveglianza, la riduzione dell’individualità, delle emozioni legate all’età e allo sviluppo, al fenomeno collettivo, alla medicalizzazione di una generazione intera. Non è un po’ troppo? Non c’è qualcosa che non va?
Si celebrano giustamente i cento anni dalla nascita di Franco Basaglia, e si vive nel ricordo reverenziale degli studi di Michel Foucault, eppure ci siamo dimenticati la lezione principale di queste divinità moderne del pensiero e della medicina: la scienza clinica tende a irregimentare, punire, separare, controllare, e la riserva di esclusione e reclusione e classificazione della malattia mentale l’ha trasformata in uno strumento di oppressione, in un aggressivo internamento secondo il Cechov di “Reparto numero 6”, lo straordinario racconto del capo distretto medico alla fine rinchiuso per giochi di potere nell’ospedale in cui aveva ravvisato la comune dolente umanità di un internato. I giochi concettuali tra esperti del disagio, termine eufemistico in fase di allargamento di significato e di diffusione malsana, tendono a farci vivere in un manicomio diffuso in cui si cura l’ansia, regina di tutto, delle preoccupazioni per le guerre, per i rischi atomici, per la crudeltà della storia e della vita, per le bombe d’acqua e gli uragani, per il riscaldamento dei mari, per la pervasività dei telefonini e dei social, così come della paura di un brutto voto, da riparare e accudire con procedure speciali secondo le circolari ministeriali, delle difficoltà di inserimento, dell’ambito sempre più spettrale della sessualità.
Non è facile vivere e vivere contenti, che è una promessa mai fatta ad alcuno da alcuno. Ma non era facile nemmeno per la generazione dei nonni dei medicalizzati di questa ultima generazione, che uscirono dalla guerra mondiale, dagli stenti e dalle fatiche della ricostruzione, quando gli attacchi di panico cosiddetti sarebbero stati più che giustificati. Non era facile per i padri e le madri che hanno vissuto, per esempio, gli anni Settanta, in uscita dal Vietnam come trauma internazionale e generazionale, e in immersione nella droga pesante in rapido e accanito spargimento di dosi e overdosi, con il terrorismo politico per ogni dove, la crisi delle ideologie, l’Aids.
Eppure proprio in quegli anni, magari anche con qualche esagerazione avanguardistica, ci disfacemmo dell’idea che i comportamenti mentalmente difformi devono sistematicamente e sempre essere tolti di mezzo con una cura medica manicomiale che spesso non è una cura ma, quella sì, una sindrome sociale di sorveglianza e punizione. Ora in modo attenuato, quasi insensibile e apparentemente indolore, torna la tendenza a fare della necessaria analisi psicologica, caso per caso eventualmente, una specie di terapia ideologica di gruppo, un gioco di interazione sociale, rendendo ossessivo e patologico nelle conversazioni pubbliche e nelle pratiche corrispondenti il fatto che, a ciascuno il suo modo la sua via, il mondo non è un giardino di rose.
Abituati alla tragedia