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la riflessione

Quant'è banale dire che la secolarizzazione segna la fine della religione 

Sergio Belardinelli

Siamo passati da una società in cui tutti, almeno sulla carta, credevano in Dio, a una società nella quale la fede anche per il credente è soltanto una possibilità umana tra tante. Ma questo in fondo può rappresentare una grande opportunità

La spiritualità della quale la religione è stata custode per secoli sembra essersi eclissata. Colpa della secolarizzazione, si potrebbe dire. Ma la secolarizzazione non ha distrutto la spiritualità, l’ha soltanto pluralizzata. Se ieri la spiritualità si riferiva a una religione, a una “regola” o a un insieme di regole grazie alle quali avvicinarsi a Dio, una serie di pratiche che comportavano impegno e privazioni, una sorta di addestramento, a volte persino doloroso, che veniva accettato in vista di un bene futuro più grande, la salvezza, oggi è venuto meno precisamente questo orizzonte comune e ognuno cerca di soddisfare a modo suo le proprie esigenze spirituali. Se ieri la spiritualità si esercitava in un orizzonte di fede in Dio, diciamo di credenza, oggi essa si esercita in un orizzonte contrassegnato soprattutto dalla non credenza. Siamo passati da una società in cui tutti, almeno sulla carta, credevano in Dio, a una società nella quale la fede anche per il credente è soltanto una possibilità umana tra tante. Di qui il crescente sganciamento della spiritualità dalla religione e il proliferare di forme di spiritualità in aperto contrasto con la religione.

Oggi le nostre esigenze spirituali non si ispirano più a una regola “esterna” che ci indica la strada da seguire. Il processo moderno di secolarizzazione e di individualizzazione ha svelato, uso le parole di Herder, che ogni uomo ha un suo modo originale di essere se stesso. Il cosiddetto principio d’uguaglianza diventa sempre di più il diritto di ciascuno alla propria differenza. Siamo entrati nell’epoca dell’autenticità, l’epoca cioè che riconosce a ciascuno il diritto di realizzare a modo suo la propria umanità. Quanto al rapporto con Dio, anche questo sembra essersi sempre più sganciato dalle istituzioni religiose tradizionali. Siamo giunti al Dio personale, come recita il titolo di un celebre libro di Ulrich Beck.  

Ma la storia che sto raccontando forse non è così lineare come sembra. Non è detto insomma che il weberiano “disincantamento” del mondo prodotto dalla secolarizzazione coincida con la crisi o addirittura con la fine della religione e delle forme di spiritualità tradizionali. C’è infatti anche un altro lato del discorso, un lato che apre alla religione una strada nuova e imprevista proprio sul fronte di quello che Weber aveva individuato come l’esito ultimo del processo di secolarizzazione: “il sentimento di un’inaudita solitudine interiore del singolo individuo”. Più la secolarizzazione si radicalizza e più si fa forte il desiderio degli individui di uscire dalla loro solitudine. Non a caso, dopo aver abbandonato le “regole” delle religioni tradizionali, registriamo un ritorno a Dio e alla fede a partire dalla ricerca personale. Il sentimento della nostra “inaudita solitudine” sembra diventare insomma la disposizione spirituale privilegiata per riavvicinarci in qualche modo al mistero di Dio. La mia anima è inquieta finché non riposa in te, diceva Agostino. La stessa inquietudine che contraddistingue anche l’orizzonte della non credenza. E’ proprio il caso di dire con Charles Taylor che “è venuta alla luce una razza di uomini capaci di vivere il proprio mondo come una realtà completamente immanente”. Al tempo stesso, però, è sempre Taylor a dirlo, assistiamo alla ricomposizione “della vita spirituale in nuove forme, e di nuovi modelli d’esistenza sia all’interno sia all’esterno della relazione con Dio”.

E questo forse spiega l’esplosione in mille forme del fenomeno della spiritualità nelle società secolari, che rende il concetto stesso di spiritualità piuttosto ambivalente e polimorfo. Se digitiamo su Google la parola “spiritualità”, vengono fuori più di un milione e trecentomila voci. Non soltanto le diverse forme di spiritualità si rendono dunque autonome rispetto alle religioni tradizionali, che le praticavano come ascesi e distacco dal mondo, ma acquistano un carattere sempre più mondano; più che con Dio, esse vengono coltivate in vista di un’armonia con se stessi e con la natura che ci circonda, senza disdegnare pratiche esoteriche, terapeutiche o spiritiche. 

Non c’è bisogno che sottolinei la portata della sfida che tutto questo potrebbe rappresentare, poniamo, per la chiesa cattolica. Premesso che considero un bene il fatto che ognuno cerchi ormai di realizzare a modo suo la propria umanità, secondo le inclinazioni che sente più congeniali; premesso altresì che l’autentica ricerca di un luogo di pienezza personale rappresenta forse l’unica forma di spiritualità veramente compatibile col nostro tempo; premesso tutto questo, ne consegue che anche le religioni tradizionali debbono sapersi adattare a questa nuova istanza; persino il sacrificio e l’ascesi vanno declinati come risposta possibile al nostro bisogno di “pienezza” e di autorealizzazione. Tuttavia, e concludo, questo bisogno di autenticità va temperato con una consapevolezza altrettanto importante circa l’orizzonte non individualistico delle nostre vite. La fede potrebbe giocare in proposito un ruolo decisivo proprio in vista dell’elaborazione di codici simbolici soggettivamente più seduttivi, meno preconfezionati e nel contempo più capaci di valorizzare la dimensione relazionale di ciascuno di noi. Come dice Taylor, “il lato oscure dell’individualismo è il suo incentrarsi sull’io”, l’allontanamento dagli altri e dalla società. Di qui il rischio di una spiritualità narcisistica sempre più vacua e diffusa e l’urgenza di non perdere di vista lo sfondo comunitario, che solo può salvare l’autenticità della ricerca personale dalla sua irrilevanza. Un orizzonte di significato da costruire dialogicamente insieme agli altri. Una grossa chance, questa, per le religioni tradizionali.

 

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